Il processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti della scorta (tra cui Emanuela Loi) si era concluso con due prescrizioni e un’assoluzione, ma le motivazioni depositate oggi dai giudici del tribunale di Caltanissetta non lasciano spazio a dubbi. Non fu solo una strage mafiosa.

Ci fu «la partecipazione morale e materiale di altri soggetti e/o gruppi di potere diversi da Cosa Nostra interessati all’eliminazione» del giudice. A dimostrare il coinvolgimento di terzi sarebbero «l’anomala tempistica della strage (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino».

«Non è aleatorio sostenere – si legge ancora – che la tempistica rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le sue azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali (soprattutto nel caso di magistrati) e ciò nella logica di frenare l'attività di reazione delle istituzioni».

Ancora, sul coinvolgimento di pezzi delle istituzioni: «La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa Nostra - concludono i giudici - si spiega solo alla luce dell'appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell'autobomba destinata all'uccisione di Paolo Borsellino».

Capitolo agenda rossa: «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti alla mafia che si aggirano tra decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a un’attività materiale di Cosa Nostra», si legge in uno dei passaggi della sentenza.

Da ciò, discendono «due logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in campo non consentono l'esatta individuazione della persona fisica che procedette all'asportazione dell'agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre».

«In secondo luogo - concludono i giudici - un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell'eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire - non oggi, ma già 1992 - il movente dell'eccidio di Via D'Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa Nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage ( che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D'Amelio».

La sentenza, emessa a luglio scorso, dichiarò prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti finiti a processo per l’inquinamento dell’inchiesta, e assolse il terzo imputato Michele Ribaudo.

Secondo la Procura i tre, con la regia del capo Arnaldo La Barbera, poi morto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti. Un castello di menzogne che ha aiutato i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan di Brancaccio e dei fratelli Graviano.

(Unioneonline/L)

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