Sono trascorsi quarant'anni dalla mattina del 16 marzo 1978, quando un commando di terroristi delle Brigate Rosse rapì Aldo Moro in un agguato costato la vita ai cinque agenti della sua scorta, e la ferita di quello che può considerarsi il più grave attacco al cuore della democrazia italiana e ai suoi simboli istituzionali non si è ancora rimarginata.

Dei 55 giorni che seguirono e che rappresentano uno spartiacque nella nostra storia nazionale restano le verità giudiziarie, le cronache giornalistiche e tante ricostruzioni composte attraverso il ricordo di testimoni e protagonisti. Tra loro il senatore del Partito Democratico Luigi Zanda, cagliaritano, che visse quei giorni accanto all'allora ministro degli Interni Francesco Cossiga, in veste di suo assistente politico e responsabile dell'ufficio stampa.

Senatore Zanda, come ricorda quella mattina?

"Ho saputo che era successo qualcosa di molto grave entrando in un corridoio del Viminale che quella mattina, a quell'ora, era deserto. Mi venne incontro il consigliere giuridico di Cossiga, Carlo Salimei, e mi disse che a via Fani c'era stata una sparatoria, ma ancora non sapevano se ci fossero stati morti e se Aldo Moro fosse ferito. Si sapeva solo che il fatto riguardava lui e la sua scorta. Poco dopo si seppe con chiarezza della morte degli agenti e del rapimento. Il ministro Cossiga al momento era in macchina, fu avvisato e cambiò percorso per recarsi in via Fani e poi direttamente a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti".

Come reagì Cossiga?

"La sua preoccupazione immediata fu quella di concentrare tutte le energie sul sequestro e personalmente mi sollevò dall'incarico di occuparmi della sua attività politica e mi chiese di occuparmi solo delle varie iniziative dello Stato per la liberazione di Aldo Moro. E mi diede anche la lettera di dimissioni che scrisse immediatamente dopo l'agguato terrorista, immaginando di consegnarla al termine della vicenda".

Si è parlato di due lettere, una nell’ipotesi di liberazione di Moro e l'altra in caso di un epilogo drammatico?

"In realtà erano anche più di due, o meglio, l'ossatura era una, ma contemporaneamente Cossiga aveva scritto parti e incipit diversi a seconda degli sviluppi della situazione. Tutte, in ogni caso, contenevano le sue dimissioni da ministro".

Per quale ipotesi propendeva?

"Non credo facesse una classifica di probabilità, ma di certo tutti gli sforzi dello Stato puntavano alla liberazione di Moro e alla ricerca del luogo dove era tenuto prigioniero".

Le lettere furono conservate per tutti i 55 giorni?

"Sì, le conservai io, nella cassaforte del mio ufficio".

Prima del dramma quali erano i rapporti tra Moro e Cossiga?

"Nei mesi prima del rapimento, accompagnavo Cossiga almeno una o due volte la settimana in via Savoia, dove Moro aveva il suo studio e dove loro avevano sempre colloqui di un'ora, un'ora e mezza".

Francesco Cossiga e Aldo Moro
Francesco Cossiga e Aldo Moro
Francesco Cossiga e Aldo Moro

Proprio quel giorno Moro avrebbe visto i frutti del suo lavoro di apertura al Pci di Berlinguer, con il voto di fiducia al IV Governo Andreotti. Cossiga cosa ne pensava?

"Era molto favorevole e spalleggiava Moro in questo obiettivo con molta convinzione. Peraltro in qualità di ministro degli Interni riceveva quotidianamente Ugo Pecchioli - senatore comunista che all'epoca si occupava di terrorismo, criminalità organizzata e difesa dell'ordinamento democratico - per analizzare con lui le situazioni inerenti la sicurezza e credo che abbia condiviso con lui ogni decisione importante".

Ma il Governo che si votò quel giorno non rispettava in pieno "i patti" tra Moro e Berlinguer. Mi riferisco ad alcuni ministri che il Pci non avrebbe voluto designati...

"Sinceramente non conosco e credo che nessuno conosca 'patti' di questo genere ed escludo che Moro abbia avallato una composizione di governo senza averne spiegato e condiviso le ragioni con Berlinguer".

Tornando al rapimento, quando ci fu la prima vera svolta?

"Direi che un elemento importante fu l'arrivo della prima lettera di Moro a Cossiga. Una lettera bellissima, chiara e scritta in una lingua perfetta, nella quale raccomandava la massima segretezza e chiedeva esplicitamente che non venisse resa pubblica, perché questa era la condizione essenziale per l’avvio e il buon fine di eventuali contatti tra le Br e lo Stato. Cossiga mantenne l'impegno e la condivise solo con Giulio Andreotti e il Procuratore della Repubblica. Purtroppo dopo qualche giorno le Br recapitarono la lettera al Messaggero e venne quindi resa pubblica. L'impressione che mi fece fu terribile: per me era il segno che i terroristi non volevano trattative e che avevano già deciso la sorte di Moro, rendendo difficile qualsiasi rapporto con lo Stato".

Francesco Cossiga
Francesco Cossiga
Francesco Cossiga

C’era la difficoltà di gestire a livello mediatico una vicenda delicatissima

"L'Italia di allora non era assolutamente preparata a un avvenimento di questa portata. Ripensando a quei giorni, posso dire di non essermi sentito all'altezza del dramma simile. Ma credo che nessuno lo fosse, tutti gli organi dello Stato erano in affanno, dai servizi segreti alle forze di polizia, per non dire della politica, con evidenti sbandamenti come quello di La Malfa che chiedeva l'introduzione della pena di morte. E ci furono altre grossolane manifestazioni di smarrimento. Il trauma colpì allo stesso modo l'intera società e pure nel mondo della stampa solo pochissimi mantennero la freddezza necessaria".

Uno sbandamento che ci fu anche quando si decise la linea da adottare con i terroristi?

"Questa è altra questione, era naturale che ci fossero posizioni diverse ma la linea per così dire naturale da seguire, e l'unica possibile, era quella della fermezza. Però, anche i più convinti fautori di quella linea in cuor loro avrebbero desiderato spiragli per arrivare alla liberazione, in qualsiasi maniera possibile, dall'offerta in denaro del Vaticano al vaglio della richiesta di liberazione di 12 terroristi, dei quali si valutarono attentamente i profili per capire se dal punto di vista legale fosse possibile procedere. La via della non trattativa prevalse, ma contemplava sempre la necessità di esplorare tutte le strade possibili per liberazione. Dobbiamo dire che la linea della fermezza sul sequestro Aldo Moro coincise con l'inizio del declino delle Brigate rosse".

Cossiga come conciliò la fermezza e la vicinanza umana a Moro?

"Nel suo intimo la contraddizione pesò tantissimo e aprì una lacerazione che credo non si sia mai chiusa sino alla sua morte. Ne mostrò i segni persino fisicamente, imbiancando i capelli e manifestando macchie sulla pelle".

Si dice che quella vitiligine gli venne vedendo la salma di Moro in via Caetani

"Il ritrovamento di Moro fu solo l'atto finale di una sofferenza durata 55 giorni".

Cosa pensa delle dichiarazioni dell'ex ministro socialista Signorile e di Paolo Guzzanti, ex presidente della commissione bicamerale d'inchiesta sulle stragi, secondo cui il cadavere venne trovato due ore prima della versione ufficiale?

"Non mi sembrano affermazioni che meritino risposta. Ricordo benissimo quando Cossiga ricevette la telefonata del Questore di Roma che lo informava del ritrovamento di Moro e corse in via Caetani, tutto si risolse in una manciata di minuti".

Poi ci fu lo strappo della famiglia Moro che disse no a funerali di Stato

"Penso, e lo pensai anche allora, che per i familiari sia stato un dolore tanto violento da spiegare ogni reazione e la scelta dei funerali privati. Una volontà perfettamente comprensibile".

Nessuna polemica o rancore verso la dirigenza della Dc o le istituzioni?

"Non credo che la parola rancore serva a capire la complessità e la profondità del dolore e dello strazio dei suoi familiari, condiviso e sentito anche da tanti italiani che avevano conosciuto Moro attraverso le sue posizioni politiche e per aver ascoltato i suoi bellissimi discorsi".

Dopo il caso Moro è rimasto in contatto con Cossiga? Siete tornati sull'argomento?

"Ho continuato a vederlo e siamo rimasti in ottimi rapporti, ma devo dire che non ricordo di aver più affrontato l'argomento. Ne parlava raramente".

Luigi Zanda, a destra, assiste alla conferenza stampa dei Primi ministri Francesco Cossiga e Margaret Thatcher a Londra, nel 1980
Luigi Zanda, a destra, assiste alla conferenza stampa dei Primi ministri Francesco Cossiga e Margaret Thatcher a Londra, nel 1980
Luigi Zanda, a destra, assiste alla conferenza stampa dei Primi ministri Francesco Cossiga e Margaret Thatcher a Londra, nel 1980

Ma il peso lo sentiva ancora, tant'è che in seguito ebbe diversi incontri in carcere con alcuni brigatisti

"Da quanto mi raccontava sia lui sia Moro avevano sempre avuto fortissima la volontà di capire il fenomeno terroristico, e soprattutto le ragioni della protesta giovanile degli anni '70. Non dimentichiamo che quella è stata un'epoca in cui l'Italia vedeva ogni sabato cortei di centinaia di migliaia di giovani, una parte dei quali, e solo una parte, era violenta. Una fase storica che forse dobbiamo ancora ben investigare, nella quale ci sono state sì la protesta violenta, con 600 morti e migliaia di feriti, in parte coda del ’68, ma anche grandissime riforme come lo statuto dei lavoratori e l'ampliamento dell'obbligo scolastico, il completamento dell'istituzione delle Regioni e la modifica del diritto di famiglia. Da tutta questa massa di avvenimenti derivano le due realtà che si compiono e si contrappongono proprio in quel 16 marzo, da un lato il governo di solidarietà nazionale e dall'altro il sequestro di Moro. La politica che tentava di evolvere e il terrorismo che cercava di riportarla indietro".

C'è ancora qualcosa da dire o da scoprire sul caso Moro?

"Penso che la verità giudiziaria sia sufficientemente completa, abbiamo un tremendo delitto e abbiamo le persone che hanno confessato di averlo commesso. Può darsi che ci siano ancora angoli bui da scoprire, e se ci sono vanno investigati".

Barbara Miccolupi

(Unioneonline)

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