Le controllava i vestiti, la costringeva a mangiare in una stanza separata dagli uomini e a occuparsi sostanzialmente solo di casa, marito e figli, decidendo persino cosa doveva guardare in tv. E se provava a ribellarsi, la insultava e secondo l’accusa talvolta anche picchiata.

Vittima la moglie di un imam, condannato per maltrattamenti dalla Procura di Torino a due anni e tre mesi.

“Anche se molti comportamenti per la cultura araba possono essere considerati normali - aveva sostenuto l'accusa in aula -, in questo caso travalicano il limite ed assumono una rilevanza penale".

La donna si era sposata in Marocco, in un matrimonio combinato dalle famiglie d'origine. Poi si era trasferita in Italia con la famiglia ma la casa era diventata per lei una prigione.

Abiti informi e velo erano d'obbligo per la donna, che non poteva uscire sola. Contraddire il marito era impossibile: l'unica volontà era quella dell'uomo, arrivato per l'accusa persino a prenderla a schiaffi e a spintonarla.

L'imam ha sempre negato le accuse e il suo legale, l'avvocato Federico Schettini, ha già annunciato l'intenzione di ricorrere contro la condanna di primo grado. Gli amici portati come testimoni lo hanno difeso: nessuno ha raccontato di avere assistito a episodi di violenza, fisica o psicologica. L'unico referto medico, secondo la difesa, riguardava un dito gonfio, perché durante una lite il marito avrebbe chiuso un armadio pizzicandole la mano.

"Una cosa sono i maltrattamenti, un'altra gli aspetti culturali. Anche mangiare in disparte, gli uomini separati dalle donne, non possono essere considerate condotte illecite", sostiene l'avvocato Schettini annunciando il ricorso, ma l'accusa non ha dubbi. Anche per quanto riguarda i testimoni: "Si tratta di uomini, in particolare di mariti, che hanno mostrato lo stesso imprinting culturale - aveva sostenuto la pm Barbara Badellino nella sua requisitoria -. Le loro dichiarazioni sono poco attendibili".

(Unioneonline/D)

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