Si sono conosciuti sui social, e sono andati dopo poco tempo a vivere insieme, alle porte di Roma. Ma in brevissimo tempo la convivenza si è rivelata un inferno per la ragazza, picchiata e maltrattata da quell’uomo, un 41enne romano, che credeva l’amasse, e poi costretta a farsi tatuare sul viso, da chi non sospettava la mancanza di consenso della giovane, il nome del suo convivente aguzzino e altri segni indelebili come croci e lacrime.

Oggi, in Cassazione, la condanna a sei anni e otto mesi di reclusione per il 41enne. I giudici, nel verdetto depositato oggi, chiariscono che anche se si è trattato di un breve periodo di convivenza, il rapporto tra i due è stato "intenso e stabile" e dunque è potuta scattare l'accusa di maltrattamenti in famiglia che ha reso possibile perseguire d'ufficio l’uomo che la compagna, per paura di altre violenze, non aveva nemmeno denunciato.

La situazione è emersa quando lui ha iniziato a picchiarla in un locale pubblico, con conseguente intervento delle forze dell'ordine e la scoperta di una storia, che risale al 2019, di prevaricazione e abusi.

L'uomo, ora in carcere a scontare la sua pena, è stato condannato anche per lesioni aggravate e per aver deformato l'aspetto della ragazza "mediante lesioni permanenti al viso", reato perseguito dall'art. 583 quinquies del codice penale messo in campo nel 2019 contro le aggressioni con l'acido corrosivo e inserito in un pacchetto di norme contro la violenza domestica e di genere.

"In particolare - scrive la Cassazione - il reato di deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso sarebbe stato commesso inducendo in errore l'esecutore materiale di alcuni tatuaggi impressi al volto della vittima, circa la sussistenza del consenso di quest'ultima".

Il 41enne è stato condannato con rito abbreviato in primo grado dal Gup del Tribunale di Velletri e poi - il 19 febbraio 2021 - dalla Corte di Appello di Roma. Non ha trovato condivisione la tesi difensiva che sosteneva la non configurabilità del reato di maltrattamenti dato che "non vi sarebbe stato alcuno stabile rapporto di continuità familiare né alcun legame di reciproca assistenza per un apprezzabile periodo di tempo: la relazione tra i due sarebbe durata solo quattordici giorni".

Ad avviso della Suprema Corte, invece, "emerge che il rapporto tra i due, pur non essendo durato a lungo, è stato intenso e stabile e che la coppia progettava di prolungare la vita in comune". E per questo "fondatamente", afferma ancora il verdetto, la Corte di Appello ha ritenuto che si fosse in presenza di un rapporto di convivenza "giuridicamente rilevante", tutelato dalla legge.

"È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia - conclude la Cassazione - anche in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e una attesa di reciproca solidarietà".

(Unioneonline/v.l.)

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