La recente tragedia di Olbia, in cui ha perso la vita Gianpaolo Demartis dopo essere stato colpito con il Taser dai carabinieri, seguita pochi giorni dopo dalla morte di un giovane a Genova vittima dello stesso trattamento, riapre un dibattito sull’uso di questo strumento nelle operazioni di ordine pubblico. La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Sul tema interviene il consigliere regionale Valdo Di Nolfo: «Sono completamente contrario all’uso del Taser. Viene impiegato spesso su persone in condizioni psicofisiche alterate: una scarica elettrica colpisce un corpo già in difficoltà e può trasformarsi in condanna a morte. In soli tre mesi ci sono stati tre decessi legati a questo strumento: parliamo di persone che avrebbero bisogno di aiuto, non di scosse elettriche».

Di Nolfo ricorda che fino a pochi anni fa anche interventi complessi e delicati, come quelli legati ai trattamenti sanitari obbligatori, venivano gestiti senza ricorrere al Taser. «Se trasformiamo Tso e Taser in strumenti di pulizia sociale abbiamo fallito – osserva – perché significa colpire i più fragili. È necessario riflettere se sia giusto mettere un’arma simile nelle mani delle forze dell’ordine, che rischiano di trovarsi a gestire emergenze sociali con strumenti violenti pensati per reprimere invece di tutelare chi si trova già in uno stato di alterazione psicofisica». L’onorevole regionale lancia un appello per una revisione generale della normativa che ha introdotto l’utilizzo esteso del Taser con tutti i rischi e le difficoltà legate alla formazione di chi ne dispone che ciò comporta: «Come abbiamo visto dai dati – spiega – si tratta di uno strumento che per quanto venga raccontato come di blanda entità può invece avere conseguenze letali». Il pericolo, secondo Di Nolfo, non riguarda soltanto la salute fisica dei cittadini, ma anche il concetto di approccio sociale: «Se si normalizza l’idea che chi è in difficoltà debba essere affrontato con un’arma, allora sparisce ogni principio di inclusione. Ancora una volta si usano le maniere forti contro i deboli e così si creano nuovi nemici sociali, alimentando diffidenza e marginalizzazione anziché coesione e solidarietà». «Non possiamo permettere – conclude – che un dispositivo pensato come alternativa non letale si trasformi in un fattore di esclusione e di pericolo, soprattutto per le persone più fragili. Il caso di Olbia, così come altri avvenuti nel Paese, deve spingerci a un’assunzione di responsabilità collettiva. È necessario un confronto istituzionale sul tema, il Governo e Parlamento devono rivedere l’impianto normativo».

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