"Quella notte ero a casa e dormivo" L'intervista di Pani a L'Unione Sarda
Qualche giorno dopo il delitto, di cui ora è ritenuto colpevole, Enrico Pani raccontò a L'Unione Sarda cosa pensava di suo fratello, trovato morto nel dicembre del 2008 in una casa di via Eleonora d'Arborea.Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
«Io mio fratello lo amavo, anche se eravamo così diversi».
Diversi in che senso?
«Io estroverso, lui taciturno. Io benestante e lui senza un soldo. Giancarlo un po’ la accusava, questa differenza. Ma aveva una grande dignità e non ne parlava, non si faceva aiutare. E questo modo d’essere alla fine gli è costato caro».
* * *
Enrico Pani ha trovato il cadavere di suo fratello tredici giorni fa. Non sentiva Giancarlo ormai da due settimane. Si è preoccupato, è andato in via Eleonora d’Arborea e lo ha trovato, a pancia in su, nel bagno. Morto. Non lo ha sfiorato: «Ho sentito una voce che mi ha detto “Non toccare nulla e chiama i carabinieri”. E così ho fatto». I militari, per inciso, da quel giorno lo hanno interrogato una decina di volte. Gli hanno controllato la pelle palmo a palmo, centimetro per centimetro. Nulla, neanche un graffio. «Assassino io? E perché mai? Non avrei motivi. Io sto bene, non mi manca nulla».
E la casa? Giancarlo era contrario alla vendita.
«Non è vero. La metà di quei soldi sarebbe andata a lui, gli
servivano. Volevamo venderla tutti e due».
Suo fratello però era preoccupato. Lo raccontava a tutti, ultimamente.
«So che molti hanno indicato l’appartamento come possibile movente. Ma a me non interessa. Non ci vivo più da vent’anni, andavo solo per ritirare la posta».
Dov’era la notte del delitto?
«A casa mia, a letto».
È andato in cimitero in questi giorni?
«Anche ieri. Gli ho portato una rosa, come quella che ho
messo dentro la bara».
I fiori del funerale erano pagati dagli amici del quartiere: hanno fatto una colletta.
«Scriva questo: mio fratello era lo schiavo della Marina, era sfruttato. Molti dovrebbero pulirsi la coscienza prima di parlare: spesso Giancarlo andava a casa dopo aver lavorato tutto il giorno, senza avere i soldi per comprarsi un panino. Andava a pescare per mangiare e non chiedere aiuto a nessuno. Ci hanno insegnato questo, in famiglia. Dignità».
* * *
Mascagna di capelli lunghi e grigi pettinati con l’aiuto della brillantina, basette ancorate saldamente sotto i lobi delle orecchie e un accenno di barba, tre giorni al massimo. Look calcolato con cura estrema, quasi una mania. Colletto immacolato (così come i polsini che spuntano dalla giacca di velluto), foulard nero a coprire la gola, due anelli d’oro alle dita che non possono non incuriosire anche gli osservatori più distratti.
Oro bianco, con sorpresa al centro: «È un diamante, certo. Roba vera: un carato». Enrico Pani, cinquantacinque anni, padre decoratore di pianelle e madre «dama di compagnia in diverse famiglie», dice di essere benestante. Ha lavorato per anni, in molte parti del globo e cambiando impiego spesso e volentieri. Da piccolo abitava in via Garibaldi e giocava, ironia della sorte, con Sandro Pili, ora pm titolare delle indagini sulla morte del fratello. «La vede questa cicatrice sul labbro? Mi ha tirato una freccia proprio lui, giocavamo agli indiani».
Dopo l’infanzia, che ha fatto?
«A 14 anni sono andato via di casa. Ho girato il mondo, praticato mille sport, per anni ho fatto equitazione. Avevo pure un cavallo. Sono stato a Copenaghen, Londra, Amsterdam, conosco bene ogni angolo d’Europa. Eravamo molto diversi, io e Giancarlo. A me piace la bella vita, le auto di classe, sono un signore».
Come si mantiene?
«Vivo di rendita. Adesso non lavoro. E poi uno può anche vincere al Totocalcio o al Superenalotto no? Comunque i soldi non li ho fatti né con le rapine né con lo spaccio».
Ama gli abiti eleganti.
«Il vestito più bello è quello che abbiamo dentro. E il mio è pulito, puro. Meglio di Armani e Versace».
Cosa direbbe all’assassino?
«Lo perdonerei. Perché la vendetta non serve a niente. Ma spero che il pm Pili quella freccia ora la tiri a chi ha ucciso mio fratello».
Michele Ruffi