Probabilmente il nome di Alberto Corona non vi dice nulla. Eppure dovreste conoscerlo, dovrebbero conoscerlo tutti, perché il suo è il nome dimenticato di una vittima innocente di mafia. Un ragazzo sardo che non solo lo Stato non ha saputo proteggere ma ha addirittura consegnato nelle mani del suo carnefice, senza mai chiedere scusa o perdono ai familiari che ancora oggi lo piangono e aspettano di ottenere i risarcimenti stabiliti dai giudici.

LA VITTIMA E L'ASSASSINO Alberto aveva 22 anni quando fu ammazzato, all'alba del 24 febbraio di dieci anni fa. Gli spararono un colpo di pistola in bocca dopo averlo fatto inginocchiare. Un'esecuzione mafiosa, appunto. Come mafioso, così hanno certificato le sentenze, è l'assassino: Rocco Varacalli, calabrese di Careri, classe 1970, affiliato della 'ndrangheta diventato poi collaboratore di giustizia (è stato uno dei pentiti più importanti nel processo Minotauro contro le 'ndrine piemontesi) e per questo mandato a vivere in Sardegna, a Selargius, con in dote una nuova identità, soldi e la possibilità di rifarsi una vita. Alberto invece la sua di vita la stava appena iniziando a costruire, seppur fra mille difficoltà, sporcandosi le mani di fango e spezzandosi la schiena dall'alba al tramonto. Nato a Donori, un paesino del Parteolla, amena regione rurale del Sud Sardegna, figlio di gente umile e modesta, faceva il servopastore, accudendo le pecore degli altri. Da qualche mese lavorava in un ovile nelle campagne di Serdiana, un centro a pochi chilometri dal suo paese, in località Ghineu, dove dormiva tutte le notti perché non aveva neanche un'auto per andare e venire. Sveglia alle 6 per la mungitura, poi chilometri a piedi per valli e pendii dietro alle pecore al pascolo e la seconda mungitura alla sera. Infine di nuovo sulla branda, in quell'ovile freddo e umido dove a fargli compagnia c'erano solo i cani e il gregge. Tutti i giorni così, domeniche e festivi compresi.

L'ovile del delitto (Archivio U.S.)
L'ovile del delitto (Archivio U.S.)
L'ovile del delitto (Archivio U.S.)

IL DELITTO Anche il 24 febbraio del 2009 Alberto era all'ovile e si stava preparando a mungere quando, tra le 6 e le 6.30 di un'alba gelida, arrivò Rocco Varacalli, che delle pecore era il padrone. Poco prima, durante una festa, il calabrese aveva discusso con il proprietario del podere, Raffaele Baldussu, un pastore di Dolianova che gli aveva annunciato di voler sciogliere la loro società. Così, ubriaco e furioso, era tornato nella casa di Selargius dove viveva, aveva preso una pistola che teneva nascosta e si era precipitato a Ghineu, convinto che gli volessero portare via il gregge. Lì aveva trovato Alberto e senza nessuna ragione, se non dare una lezione feroce a chi aveva osato contraddirlo, lo aveva fatto inginocchiare, gli aveva infilato la canna della pistola in bocca e aveva premuto il grilleto. Uccidendolo. Come fanno i mafiosi. Una scena agghiacciante che i giudici della Corte d'assise d'appello di Cagliari, nel confermare la condanna a 24 anni e mezzo di carcere per Varacalli, descrivono così nelle motivazioni depositate il 2 dicembre scorso: «Aveva viaggiato per circa mezzora nella notte ed era giunto presso l'ovile di Ghineu, dove aveva raggiunto Alberto Corona, il guardiano dell'ovile e del gregge, un ragazzino indifeso e timido, assolutamente estraneo al litigio tra Varcalli e Baldussu di poche ore prima, nonché inconsapevole dello stesso, che verosimilmente si era avvicinato con fiducia a Varacalli, avendolo riconosciuto. Per tutta risposta Varacalli, in preda ai fumi dell'alcool e alla rabbia lo aveva fatto inginocchiare, gli aveva poggiato la pistola all'altezza della bocca e gli aveva sparato».

Il padre e la madre di Alberto Corona (Archivio U.S.)
Il padre e la madre di Alberto Corona (Archivio U.S.)
Il padre e la madre di Alberto Corona (Archivio U.S.)

DEPISTAGGI E PROCESSI Ma il pentito, che all'epoca già era stato condannato a 20 anni per un omicidio commesso in Piemonte, non si limitò a questo. Consapevole di averla fatta grossa, per mesi depistò le indagini, sfruttando il suo status di affidabile collaboratore della Procura di Torino, sviando i sospetti sul rivale Baldussu e sul figlio di questi Francesco, indicato come l'autore materiale del delitto. Dalla Procura di Cagliari si fece persino autorizzare a raccogliere le conversazioni dei due attraverso un registratore nascosto, poi aveva occultato una pistola nei campi infilandola in una busta insieme a un fazzoletto intriso del sangue di Raffaele Baldussu ottenuto con l'inganno. Un piano diabolico, tanto che alla fine riuscì a far arrestare padre e figlio, entrambi difesi dagli avvocati Patrizio Rovelli e Maria Grazia Monni, che dovettero affrontare un lungo processo dal quale uscirono assolti solo nel 2012. Ma è proprio durante quel processo ai due pastori innocenti che ci fu il colpo di scena che sparigliò le carte, inguaiando il calabrese: chiamata sul banco dei testimoni, la compagna dell'epoca di Varacalli, Maria Lucia Angioni, rivelò che mezzora prima dell'omicidio, il pentito calabrese era rientrato ubriaco nella loro casa di Selargius, aveva preso una pistola ed era uscito di corsa gridando come un indemoniato perché a suo dire gli volevano rubare le pecore. Un colpo di scena che, oltre a scagionare i Baldussu (Francesco è stato anche risarcito dallo Stato con 150mila euro per l'ingiusta detenzione patita), fece crollare anche il castello di bugie e falsi alibi costruito con inusuale lucidità da Varacalli che da quel momento divenne l'indiziato numero uno per il delitto.

Rocco Varacalli (Archivio U.S.)
Rocco Varacalli (Archivio U.S.)
Rocco Varacalli (Archivio U.S.)

LE SENTENZE Condannato in primo grado nel 2015, due anni dopo al processo d'appello Varacalli chiese la parola e a sorpresa cambiò di nuovo versione: ammise per la prima volta di essere andato all'ovile armato ma scaricò le colpe del delitto su un'altra persona, il fratello della sua amante, accusandolo di aver sparato lui il colpo fatale. L'ennesima calunnia per i giudici, secondo i quali le «condotte delinquenziali poste in essere da Varacalli con spregevole crudeltà» sono invece «espressione autentica della sua personalità inquietante e negativa sotto tutti i profili». E spiegano anche che «l'omicidio di Alberto Corona è la manifestazione più genuina» del modo di essere «di un pericoloso criminale che spazza via con reazioni spropositate e incredibilmente feroci ogni ostacolo, legale o di fatto, che si frappone ai propri disegni di arricchimento e di potere». «Un corruttore, un manipolatore, un calunniatore dallo spessore criminale impressionante», così lo definì l'avvocato Rovelli, legale dei Baldussu, nella sua arringa, durante la quale sottolineò l'incessante tramare di Varacalli «per allontanare da sé i sospetti». Una storia di sangue e menzogne insomma, su cui ormai manca solo il timbro definitivo della Cassazione.

Raffaele e Francesco Baldussu dopo l'assoluzione (Archivio U.S.)
Raffaele e Francesco Baldussu dopo l'assoluzione (Archivio U.S.)
Raffaele e Francesco Baldussu dopo l'assoluzione (Archivio U.S.)

VITTIMA DELLO STATO E oggi, che fine hanno fatto i protagonisti di questo noir che pare uscito dalla penna di Adrea Camilleri? Rocco Varacalli dovrebbe essere rinchiuso in qualche carcere della Penisola (almeno si spera) e nonostante abbia rinunciato alla protezione resta un attendibile collaboratore di giustizia, che va e viene per i Tribunali di mezza Italia facendo il testimone d'accusa nei processi di 'ndrangheta. Omicidio Corona a parte, durante i suoi anni di permanenza in Sardegna, cioè quando era sotto la protezione dello Stato, è finito sotto accusa anche per una lunga serie di altri reati: associazione per delinquere finalizzata ai furti e alle rapine, violenza sessuale su una minore, traffico di droga, maltrattamenti in famiglia. Nel frattempo la madre di Alberto, schiantata dal lutto, è morta il 22 febbraio scorso, a due giorni dal decennale del delitto del figlio. A invocare giustizia, restano soltanto Mario e Nicola, l'anziano padre e il fratello dell'ucciso. «Nessuno ci ha mai chiesto scusa, nessuno ci ha mai mandato una lettera. Lo Stato ci ha completamente abbandonati, così come ha dimenticato Alberto». Stando alle sentenze dei giudici Varacalli avrebbe anche dovuto versare ai familiari di Alberto i risarcimenti provvisionali: 100mila euro per i genitori e 50mila per il fratello. Ma ovviamente non ha mai pagato. Ottenerli dal pentito - come spiega l'avvocato Antonello Obinu, legale della famiglia Corona - sarà difficile se non impossibile: «Risulta nullatenente». La risposta in un Paese normale sarebbe scontata: paghi lo Stato, che di quella morte innocente è forse il principale responsabile. Ma probabilmente non accadrà mai: d'altronde a chi può importare di uno sconosciuto pastorello sardo? Nessuno ne farà mai un eroe, né un martire. E la morte di Alberto Corona, ucciso a 22 anni con una pistolettata in bocca da un pentito di primo piano, resterà semplicemente un danno collaterale, del tutto irrilevante, nella battaglia contro la mafia.

L'INTERVISTA AL LEGALE DELLA FAMIGLIA

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