L’inferno è recintato, a due passi dallo stagno dei fenicotteri. Sull’orizzonte si staglia lo skyline dell’antica Karalis, come specchietto per le allodole. Le barre di ferro sono conficcate in un muro perimetrale che delimita l’alcova della multinazionale svizzera in terra di Sardegna, a ridosso delle pendici di Monte Arcosu. La ruggine corrode giunture e serrature, tracollano varchi e ostacoli. Entrare in quel regno incontrastato dell’affare perpetuo consumato sulla testa dei sardi non è più impossibile. Toccare con mano una delle più imponenti operazioni speculative sull’ambiente mai consumate sull’asse tra Macchiareddu e Portovesme non è impresa ardua. Solo quando la minuta sagoma umana si staglia su quei cumuli imponenti di veleni comprendi le dimensioni del disastro.

Denari & veleni

Un angolo di deserto industriale che doveva restare precluso ai più, trasformato in nemmeno un quinquennio in una fabbrica di denari e rifiuti. La speranza che quel capannone morisse lì, chiuso per sempre, senza che nessuno si accorgesse di quanto si stava consumando al suo interno, travolto da un fallimento sospetto, è franata in un attimo sotto i colpi profondi di una benna di Stato. Quando la ruspa, spedita lì dalla Procura, ha affondato i primi colpi profondi su quel materiale si è capito che il “gioco” era finito. Il piano per spacciare quel rifiuto come “gesso” da riciclare in “opere di bene” ha vacillato non appena il “carotaggio” si è conficcato nella trincea aperta dal mezzo meccanico.

Ingordigia multinazionale

I signori della Glencore, la potentissima multinazionale svizzera in terra di Sardegna, ci hanno provato. L’ingorda ambizione di risparmiare una montagna di milioni di euro “regalando” quei rifiuti ad una società da quattro soldi, nata da qualche giorno, e fallita “miracolosamente” al momento giusto, si è schiantata come un siluro di vergogna sulla scoperta messa nero su bianco dalla Procura della Repubblica di Cagliari. A dire il vero, ventiquattro ore dopo la notizia della chiusura indagini da parte di Rita Cariello e Rossella Spano, Pubblici Ministeri di questa inquietante vicenda, i legali della multinazionale ci hanno pure provato a sostenere la tesi che si trattasse di semplice materiale di scarto di una lavorazione industriale, quella della Portovesme srl. Un sottoprodotto, hanno pure sostenuto. Le note del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale, del servizio territoriale dell’ispettorato ripartimentale di Cagliari, però, redatte in nome e per conto della Procura della Repubblica sostenevano ben altro. Quell’enclave nella quinta avenue, periferia estrema della zona industriale di Macchiareddu, trasformata da tempo in un ricettacolo di rifiuti pericolosi e maleodoranti, era ben altro che un semplice centro di stoccaggio di materiali industriali da riciclare, come avevano dichiarato i “fantasiosi” gestori di questo disastro ambientale alle porte di Cagliari. Non ci credevano nemmeno loro, anzi. I titolari della società costituita con cento euro di capitale sapevano perfettamente il motivo per il quale quei cumuli erano destinati a restare lì in attesa del fallimento.

Everest di rifiuti

Da quando hanno iniziato a costruire l’Everest dei rifiuti, dentro e fuori quel capannone grande come due campi di calcio, non hanno venduto nemmeno una carriola di quel “ben di Dio”. I camion, ora riversi all’ingresso sbarrato dello scempio, consunti dal tempo, hanno viaggiato come dei forsennati, da Portovesme a Macchiareddu. Hanno avuto l’accortezza di usare mezzi coperti, consapevoli che non potevano attraversare mezza Sardegna disseminando sulle strade il loro miracoloso “gesso”. Quando varchi il primo cumulo all’esterno, sul lato destro di quel capannone che esplode di rifiuti, ti accorgi subito che il braccio della ruspa ha inferto una ferita a quella parete ormai pietrificata di materiale industriale. Il taglio è netto, quasi una porta verso le viscere di quelle montagne di rifiuti che sino a quel momento nessuno sapeva cosa potessero realmente contenere. Ad assistere all’operazione la Procura ha incaricato un tecnico che sa il fatto suo.

Il verdetto del chimico

Alessio Ceccarini, professore di Chimica Analitica nel Dipartimento di Chimica Industriale dell'Università di Pisa, ha le idee chiare. La benna di Stato spedita sul posto dalla Procura della Repubblica per otto volte incide in profondità quei cumuli ciclopici, aprendo il varco ad una sonda di carotaggio, l’unica in grado di insinuarsi profondamente in quella montagna di rifiuti. L’alcova multinazionale di Macchiareddu era definitivamente violata, con tanto di prelievi da analizzare, uno per uno, sino a svelare cosa realmente contenessero quei veleni spacciati per “gessi”. Il risultato è devastante. Il quadro d’insieme che i magistrati inquirenti mettono in fila potrebbe andare ben oltre il capo d’imputazione configurato nella chiusura indagini dello scorso 17 maggio. Non si spiega diversamente il provvedimento che Rita Cariello e Rossella Spano, i pubblici ministeri di un’inchiesta che sta facendo tremare la multinazionale Glencore, hanno firmato il 25 maggio scorso, otto giorni dopo la chiusura del cerchio.

Missiva infuocata

La missiva su carta intestata della Procura di Cagliari finita nelle nostre mani è molto di più di un allarme ambientale alle porte della città metropolitana. I destinatari della comunicazione sono fondamentalmente tre, il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, la Città metropolitana di Cagliari e il Sindaco del Comune di Assemini. Per conoscenza il diktat dei Pubblici Ministeri arriva anche all’assessorato regionale dell’Ambiente e all’Ispra, l’Istituto Superiore per la ricerca Ambientale, il braccio operativo dello Stato in materia di inquinamento. La premessa è una constatazione che non lascia vie d’uscita: «risultano comprovate le allarmanti condizioni in cui si trova l'area ubicata nella zona industriale di Macchiareddu, 5° strada, sito di interesse nazionale, attualmente sottoposta a sequestro preventivo». Il prosieguo è una sentenza senza appello: «si segnala l'esito delle analisi chimiche compiute dal consulente tecnico della Procura, prof. A. Ceccarini, sui campioni prelevati, il 15 e 16 marzo 2022, dai cumuli di calcio oggetto di sequestro: trattasi di solfato di calcio biidrato contaminato da metalli pesanti (zinco, piombo, alluminio, cadmio e rame) e, per quanto attiene allo zinco, in concentrazione tale da classificare il prodotto come pericoloso con caratteristiche di pericolo HP14 (ecotossico)».

Pugnalata ambientale

Il riscontro è una pugnalata ambientale: «I test di cessione hanno evidenziato che il materiale non è idoneo per il conferimento in discarica per rifiuti non pericolosi e, poiché cinque campioni su otto non rispettano neppure i parametri per il conferimento in una discarica per rifiuti pericolosi, è necessario, per il corretto smaltimento, che il materiale sia sottoposto ad un processo di inertizzazione per bloccare chimicamente la frazione solubile dei contaminanti inorganici».Una vera e propria bomba cancerogena, che non si può smaltire nemmeno in una discarica di rifiuti pericolosi. La gravità dei veleni contenuti in quei cumuli va ben oltre la pericolosità. Per il professore incaricato dalla Procura quelle 120.000 tonnellate di rifiuti, prima di essere conferiti in una discarica ad alto rischio devono essere inertizzati con processi chimici costosissimi. Non è finita, però.

Sostanze cancerogene

Il capitolo inquinamento della missiva mette nero su bianco il disastro esterno al capannone e all’area di sedime: «In seguito a tali risultati, l'indagine chimica è stata estesa ai sedimenti presenti nella rete fognaria di raccolta delle acque meteoriche e nella cunetta esterna al sito ove scarica la rete fognaria, sempre previo campionamento eseguito in data 7.10.2022. Le analisi chimiche sui sedimenti prelevati all'interno dei tombini hanno evidenziato valori di concentrazione significativamente alti dei metalli zinco, piombo e cadmio e ciò a causa del trascinamento del solfato di calcio biidrato all'interno delle condotte di scarico delle acque bianche. In particolare, nei campioni di terreno prelevati a monte e a valle del punto di scarico della rete fognaria si è rilevato un valore di concentrazione di cadmio (metallo pesante classificato cancerogeno) che supera la concentrazione soglia di contaminazione».

24 ore di tempo

È la Procura che inquadra la fattispecie della gravità in base alle norme ambientali: «Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione». In pratica il soggetto proprietario dell’immobile o chi verrà individuato come responsabile dovrà agire a tempo di record per bonificare l’area, con tutto quello che comporta, ovvero una spesa che andrà ben oltre i 40 milioni di euro, tanto quanto aveva di fatto risparmiato la multinazionale svizzera. Se il privato non dovesse intervenire in tempi rapidissimi, la norma parla di 24 ore, sarà il Ministero dell’Ambiente, sentito il Ministero dello sviluppo economico, a gestire la procedura di bonifica relativa ai siti di interesse nazionale. Il rischio ora è che il proprietario dell’immobile, un fondo finanziario che lo ha acquistato dalla procedura fallimentare, venga chiamato a rispondere di quel misfatto. Se non lo facesse, sarà lo Stato a farsene carico. Per l’ennesima volta. Le multinazionali inquinano, se ne lavano le mani, tanto pagano i sardi.

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