«Bisogna sporcarsi le mani, non solo dissentire». Per essere sempre dalla parte degli ultimi, padre Raffaele Boi, originario di Villasimius, era stato perseguitato e aveva rischiato di essere arrestato in Argentina (era stato mandato in missione a Burzaco nel 1967) durante il regime autoritario del generale Videla, riuscendo a scappare in modo rocambolesco grazie all'aiuto di una rete di religiosi e lavoratori. Poi tanti anni nelle missioni tra Camerun e Costa d'Avorio, il lavoro costante nel Sulcis, in Liguria e ancora la voglia di ripartire per tornare in Africa a compiere il suo servizio a favore di chi non ha nulla.

Tra gli ultimi esponenti di spicco del movimento dei preti operai, il sacerdote è scomparso ieri all'età di 88 anni (era nato il 27 giugno 1932) al Policlinico di Monserrato dov'era ricoverato da qualche tempo. Ormai anziano viveva a Selargius nella casa degli Orionini, il suo ordine.

Mai con le mani in mano

Un sacerdote che non è mai stato con le mani in mano, rispettando la regola del suo ordine: "Ciascun religioso deve saper esercitare un mestiere o un'arte". E così che aveva deciso di fare l'operaio, anche quando esercitava la sua attività pastorale: in Argentina era stato autista di autobus, nel Sulcis falegname. Lavori umili, nonostante i suoi studi l'avessero portato anche a frequentare la rinomata università parigina della Sorbona e a imparare cinque lingue.

Sempre attento al dialogo all'interno della Chiesa, la sua militanza anche politica nel movimento operaistico l'aveva spesso messo in contrasto con le alte gerarchie ecclesiastiche. Per anni le sue lettere dalle missioni e dai campi di lavoro hanno animato la discussione tra coloro che sostenevano la partecipazione in prima linea della Chiesa al fianco degli strati più umili della popolazione e chi, invece, accusava la Teologia della liberazione di estremizzare il messaggio del Concilio, dando maggiore rilevanza a un discorso sociale e politico rispetto a un discorso di fede.

Gli ultimi anni

Negli ultimi anni, da quando si era ritirato per gli acciacchi nella casa orionina di Selargius, con il "suo mondo" che rapidamente stava cambiando, amava rifugiarsi la domenica tra le mura della Comunità di Sestu, realtà ancora impegnata da mezzo secolo nel sociale in quelle che, per tutta una vita, sono state anche le sue lotte. «Dopo la mia ordinazione - aveva raccontato tempo fa - avevo compreso che, se volevo salvaguardare la mia libertà politica, dovevo fare di tutto per salvaguardare la mia libertà economica dinanzi ai miei superiori e ai fedeli della mia parrocchia. Tutto è politica: anche la scelta di essere povero tra i poveri e vivere del proprio lavoro».

Francesco Pinna

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