Ottana, cronache dal deserto industrialeClivati: "A sopravvivere saremo in pochi"
«Vivo come Gheddafi, sono un nomade». Chissà se lo dice per darsi un tono o solo per esorcizzare la paura. Paolo Clivati, uno dei pochissimi sopravvissuti nel deserto di Ottana, non rivela i suoi spostamenti: dove vive, dove mangia, dove dorme lo sanno due o tre persone. Moglie e figlio (di cinque anni) sono a distanza di sicurezza dalla Sardegna, terra di vento e di tritolo, di granito e d'attentati. Di GIORGIO PISANO.Lui, tra vedere e non vedere, ha il porto d'armi per difesa personale. Non è del tutto convinto che sia uno sfigato qualunque quello che gli ha fatto sapere, scrivendoglielo su un muro, che farà la fine di Nicolino Pittalis. Nicolino Pittalis, precisazione per i meno aggiornati, è il sindacalista più bombardato d'Italia: gli hanno distrutto la casa in campagna, minacciato i familiari, ricordato col ritmo della dinamite la musica che da queste parti preferiscono. Quella del requiem.
Paolo Clivati è milanese, bocconiano. Mostra meno dei suoi 36 anni. Veste come uno delle Iene televisive e non ti spara lo sguardo imperatore addosso. Insomma, non è un piccolo cumenda, cioé un rappresentante-baby di quella genìa di razziatori che a questa latitudine ha messo su pancia grazie ai contributi pubblici e alla fatica della popolazione indigena.
Resiste, a dispetto della crisi, precisando però che non sa fino a quando. Magro, capelli corti, ufficio che nemmeno un impiegato di terza fila, s'è presentato solo e disarmato ad un'assemblea di disoccupati. «Volevo capire», dice lui. Lo accusano di essere cocciuto, accentratore, padrone che mette il naso dappertutto. Sarà perché è tra i pochi che non sono scappati ma insiste. O forse, più semplicemente, resiste. Cita, per far capire di che pasta è fatto, il signor Wolf di Pulp Fiction: sono Wolf e risolvo i problemi .
È presidente di Ottana energia (110 dipendenti, cento milioni di fatturato), amministratore delegato di Biopowers Sardegna (motori a olio vegetale) con soci a Bolzano e Merano, presidente di Ottana polimeri (120 dipendenti, duecento milioni di fatturato) che produce il pet, vale a dire bottiglie in plastica. Ne fabbrica duecentomila tonnellate l'anno, una montagna. È anche amministratore delegato di Ottana power, settore fotovoltaico, nata quattro mesi fa e da inaugurare il mese prossimo.
Su internet c'è una sua foto dove abbraccia con passione Silvio Berlusconi, naturalmente non con lo slancio della giovanissima cubista Ruby (protagonista di recenti cronache erotico-politiche) ma comunque con intemerato vigore. «Peccato che quello della foto non sia io. In ogni caso, tanto per chiarire, stimo Berlusconi. Come imprenditore più che come politico. Uno che parte dal mattone e arriva alle tivù non può essere un fesso».
Nella piana di Ottana, dove Clivati lavora insieme a rari altri, è stato firmato nel 1998 un Contratto d'area che il governo ha oliato con un finanziamento a fondo perduto di quasi duecento milioni di euro. Delle ventinove aziende che sono calate sul malloppo con la precisione del falco pellegrino, attualmente ne restano in funzione quindici. Per undici è scattata la revoca totale del contributo: danaro (pubblico) indebitamente dirottato altrove che lo Stato adesso vuole (vorrebbe) indietro.
Ottana, la più grande truffa della storia sarda.
«La crisi è profonda, non lo nego. Però io, a differenza della Legler che aveva mille dipendenti e ha fatto le valigie, non ho mandato nessuno a casa».
Non direttamente.
«Certo, ho dovuto razionalizzare e le ditte esterne - che vivono di appalti - ne hanno sicuramente sofferto. Resta un fatto: le uniche vacche che in questo posto continuano a dare il latte sono le mie aziende».
Vizi padronali.
«Voglio controllare tutto. A differenza delle multinazionali, io non ho strutture organizzate ma persone fidate nei punti nodali. Odio sprechi e inefficienze: mi fanno uscire di testa».
In che senso?
«Una volta ho litigato malamente con un operaio. Gli avrei dato volentieri un pugno in faccia. Ho preferito darlo a una vetrata: ecco la cicatrice».
Ottana rende così nervosi?
«È un inferno. Dalla mia finestra posso vedere dov'era tenuto prigioniero (con una corda al collo) Titti Pinna, pochi mesi fa hanno piazzato una bomba contro un sindacalista e solo per caso non c'è scappato il morto, la macchina d'una mia collaboratrice è stata incendiata, le finestre della casa del sindaco bersagliate a pallettoni. Come lo vuole chiamare un posto così?»
Perchè non taglia la corda?
«Posso fare una citazione dal Paradiso perduto di Milton? Preferisco regnare all'inferno che servire in paradiso».
L'idea di tornare a Milano, anzi nella Bergamasca, non l'attira?
«Neanche un po'. Qui mi piace lavorare, qui resto. Quanto al coraggio, se non lo hai alla mia età tanto vale lasciar perdere. Avessi cercato una vita tranquilla oggi sarei funzionario di banca a Londra».
Parliamo dei tatuaggi.
«Ne ho due. Siccome metto il lavoro al centro di tutto, il primo è il simbolo di un generatore elettrico. L'altro è un numero, 530: è un articolo di codice col quale mi sono scontrato poco dopo lo sbarco in Sardegna, nel 2001».
Giovane, ricco e padrone: mica male la vita, no?
«Sono stato anche povero, una volta. Il guaio è che viviamo in una società dove l'unico metro di giudizio è quello dei soldi: se ne hai, sei intelligente, capace e perfino affascinante. Altrimenti, fai lo straccio e zitto».
Chi risponderà del saccheggio di Ottana?
«Questo non lo so. Ma la caccia al contributo c'è stata di sicuro. Le Partecipazione Statali e l'Eni hanno costruito una riserva, come dire?, di mantenimento più che di impresa. Qui c'è chi ha preso a mani basse ed è scappato. E pensare che qualcuno, visto che io sono subentrato all'Eni, vorrebbe che marciassi sullo stesso binario: assistenza, mantenimento. Sarebbe, in pratica, il dazio che dovrei pagare al territorio in cambio dei contributi a fondo perduto. Peccato però che io non abbia preso un euro».
Non ha fatto in tempo.
«Probabile. Comunque non ne ho neppure chiesto».
Imprenditori veri?
«Qualcuno c'è. Ma proprio qualcuno».
Trent'anni fa quest'area aveva un re: il ministro De Michelis, socialista dal capello unto.
«Pastori e contadini sono stati riconvertiti in operai. Dicono adesso che il banditismo agropastorale si sia trasferito nell'industria. È stato speso un oceano di danaro ma il tessuto produttivo non è mai nato. Quando non assumevo nessuno c'era la pace sociale. Appena ne ho chiamato dieci in fabbrica, è scoppiata la guerra. Ottana è in Sardegna e i sardi dicono meglio niente a nessuno che qualcosa a qualcuno. Sbaglio?»
Sugli industriali di rapina niente da dire?
«Molto, moltissimo ma non è il mio mestiere: non faccio il giudice. Montefibre, che è stata sommersa di contributi statali, ha chiuso nel 2003. Prima scossa di terremoto. Il resto, a seguire: penso alla Legler, che ha succhiato soldi allo Stato in quantità impressionante. Il primo proprietario si chiama Polli, quando l'ho conosciuto aveva residenza nell'isola di Man. Cosa aggiungere? C'è una fabbrica di cartone, irrorata dai finanziamenti pubblici, che non ha dato un posto di lavoro; poi ce n'è una che fa, anzi farebbe, siringhe...Vado avanti?»
Questi si chiamano furti con destrezza.
«Proprio così. C'è stata mancanza di controllo, approssimazione. Si pensava che seminando soldi sarebbe nato qualcosa. E invece niente».
Le risulta che amministratori pubblici chiedano prebende e posti di lavoro?
«Prebende, non ne ho idea. Il posto di lavoro me lo chiedono tutti: appena mi muovo c'è sempre qualcuno che mi mette una busta in mano. Nella busta c'è un curriculum. Nel curriculum, nove volte su dieci, c'è la storia di un manovale, licenza media e cassintegrato».
Il padre di Paolo Clivati ha avuto guai giudiziari dopo aver rilevato una centrale a Santa Giusta. Il reato: truffa ai danni dello Stato. L'inchiesta, aperta circa quattro anni fa, è ancora in piedi. Il figlio, sfruttando quella che allora sembrava una nobile scorciatoia giudiziaria, ha preferito chiedere il rito abbreviato. Assolto. Giocando d'anticipo, è lui stesso a raccontare questa vicenda: forse per dire che nessuno è senza peccato, forse per certificare che la sua strada e quella del padre si sono separate. «Gli avvocati mi consigliavano di aspettare i tempi della giustizia ordinaria ma io non potevo vivere con quel peso addosso. Sapevo di non avere scheletri nell'armadio e ho preferito accelerare. Ogni mattino guardo il mio numeretto: 530. Vuol dire assolto per non aver commesso il fatto».
Trent'anni di scippi e lavoro: cos'è rimasto?
«Più che una classe operaia, si è formata col tempo una classe sindacale che ha sostituito quella politica, colpevole e inesistente. Sono molto grato ai sindacati non per ruffianeria imprenditoriale ma perché senza di loro non sarebbero state accolte molte richieste aziendali».
Cioè?
«Se un industriale protesta è solo un industriale che protesta, se il sindacato scende in piazza sono centinaia, migliaia di potenziali preferenze elettorali a mettersi in cammino. L'eredità del passato non ha lasciato tuttavia solo conti in rosso».
Che altro?
«Anche strutture solide, che resistono tranquillamente al tempo: la centrale di controllo di Ottana energia è quella costruita nel 1974. Altra eredità sono operai di ottimo livello, personale davvero qualificato che - a differenza dei colleghi del nord Italia - vive l'azienda con senso di fedeltà, di appartenenza».
Chi glielo fa fare?
«Non sono fatebenefratelli. Guadagno, ne ricavo profitto. Produco reddito, e non solo per me. La fortuna mi accompagna e spero continui a farlo. Qui sono il primo imprenditore, a Milano una goccia nel mare».
Pressioni.
«Molte, tutte a senso unico: assunzioni».
Padrinati politici?
«Non ne ho, forse perché non ho niente da chiedere alla politica».
Mai pensato di abbandonare?
«No. Ogni tanto mi scappa la pazienza, arrivano momenti d'amarezza ma poi passa tutto. Tornassi in Lombardia, mi sentirei sconfitto. Mettetevi pure a ridere ma qui mi sento a casa».
Minacce.
«Quelle contro di me le ha firmate un sedicente Movimento armato ottanese. Non sono del tutto sicuro che dietro ci sia solo uno sbandato che pensa in grande».
La situazione si è imbarbarita.
«Molti vorrebbero portare il Far West in questo pezzetto di Sardegna. C'è chi sta cercando di organizzare la battaglia in termini professionali: non tutte sono azioni di scriteriati, di cani sciolti. C'è intelligenza, messaggi trasversali in quello che sta accadendo».
Ossia?
«Stiamo attraversando una certa zona grigia. Mi faccio una domanda: perché alcune ditte d'appalto indicano tra le referenze d'avere ex detenuti nelle loro fila? Ve lo dico io: è un modo come un altro per offrire protezione, e protezione garantita visto che a vegliare su di te ci sarà gente in arrivo dalla galera».
E lei?
«È una di quelle volte che mi va il sangue in testa. Divento furioso».
Certi messaggi sono menu tradizionali: mai parlare a viso aperto.
«L'ho verificato. È un po' come l'invidia, che qui devasta tutto. A un ragazzo molto preparato e colto ho detto: bravo. E lui di rimando: dottor Clivati, io non voglio essere bravo, voglio essere nella media. È un'ossessione tutta sarda quella di mimetizzarsi il più possibile, non apparire per timore dei veleni dell'invidia».
Ottana tornerà terra da pascolo?
«Credo di no. Tante fabbriche ridiventeranno pascoli, ci sarà una inevitabile selezione della specie. A sopravvivere saremo pochissimi».
GIORGIO PISANO pisano@unionesarda.it