«Non commettete i miei stessi errori: non sottovalutate i sintomi, nemmeno i più leggeri. E soprattutto: non ha senso provare vergogna perché si è positivi al Covid. Questa è una malattia: nessuno può essere considerato colpevole di essersi ammalato. Però è importantissimo il senso di responsabilità: al minimo dubbio mettersi in quarantena ed eseguire il tampone».

Marco Carboni, 64 anni, parla al telefonino e risponde ai messaggi dal letto di un ospedale di Sestri Levante: ricoverato da dieci giorni, le sue condizioni sono discrete. È lui il primo paziente Covid positivo di Seui, dove ora i contagiati sono venti, le persone in isolamento un centinaio e si è registrato un morto. Lui è stato tracciato due settimane fa, dopo aver lasciato il paese: in Liguria, durante la routine clinica in previsione di un intervento chirurgico. Dopo l'esito positivo del tampone rinofaringeo l'Ats ligure, secondo protocollo, ha immediatamente allertato le autorità sanitarie sarde che hanno avviato i controlli nel piccolo centro barbaricino.

«Questa - dice Carboni - è un'emergenza sanitaria ma è anche crisi sociale: oltre a farmi finire in ospedale, il virus mi ha fatto perdere il lavoro di autista di autonoleggio di lusso. Normalmente lavoravo otto mesi in Liguria e il resto dell'anno lo trascorrevo a Seui. Il lockdown di marzo ha fatto saltare i miei impegni. Ho lasciato Seui l'8 settembre solo perché mi sarei dovuto sottoporre a un delicato intervento chirurgico, anche questo rinviato a seguito della positività al coronavirus».

Come ha reagito all'esito del tampone?

«Paura, e grandissima preoccupazione per mia figlia e gli amici a Seui prima ancora che per me stesso. Ho ricevuto la notizia la notte del 12, intorno alle 23,30, e ho telefonato immediatamente a tutti quelli con cui ero stato, pregandoli di non uscire da casa prima di accertare attraverso il tampone che stessero bene. Per fortuna poi sono risultati tutti negativi».

Ha avuto contatti con Carlo Lobina, il pensionato positivo morto una settimana fa?

«Assolutamente no».

Quali sono stati i sintomi dell'infezione?

«La serata dell'8 ho iniziato a sentire un po' di mal di schiena, ma lo attribuivo al viaggio. Non sentivo gli odori e avevo il senso del gusto alterato. Il 9 mattina ho preso un caffè al bar e ricordo di avere pensato: ma che schifezza mi hanno servito».

Quanto tempo è stato in isolamento domiciliare prima del ricovero?

«Una settimana: terribile, tra le più difficili della mia vita. Non riuscivo a mangiare nulla, avevo sempre la nausea e dolori: non particolarmente forti però diffusi. Al terzo-quarto giorno sono sopraggiunte febbre (mai più di 38°) e spossatezza».

Com'è arrivato al ricovero?

«Il 20 mattina la temperatura è arrivata a 38,9°. Lì mi sono preoccupato. Ho comunicato le mie condizioni al 112: poco dopo i medici sono arrivati a visitarmi, hanno riscontrato una bassa ossigenazione del sangue e mi hanno immediatamente ricoverato. Ho tratto subito beneficio dalla terapia con l'ossigeno e quella cortisonica».

Questa malattia costringe alla solitudine: come affrontarla?

«Ci si sente abbandonati a se stessi. Durante la quarantena sentivo paura, una sorta di panico. Mi chiedevo, nel caso in cui fossi stato veramente male, chi e quando se ne sarebbe accorto. Avevo paura di fare la doccia. Ho reagito mantenendo il contatto quotidiano telefonico e attraverso WhatsApp con gli amici seuesi, cercando di offrire la mia esperienza di modo che traessero vantaggio dai miei errori. Continuo a sentirli tutti i giorni per esortarli a non sottovalutare alcun sintomo, a chiamare il 112 quando occorre, e soprattutto a non provare vergogna: nessuno può essere considerato colpevole di essersi ammalato».

Paola Mura Ruggiu

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