Un colpo di spugna, un blitz costituzionale, uno scippo in piena regola. Più che un decreto legge è un bulldozer, scava dalle viscere della terra ai giacimenti a cielo aperto, di ieri e di oggi. Con uno colpo solo annienta lo Statuto sardo, consegna ai Palazzi di Roma i «diritti demaniali e patrimoniali della Regione relativi alle miniere, cave e saline». Un colpo basso, prima di tutto alla storia più antica, quella delle miniere sarde. Il provvedimento legislativo appena varato dal Consiglio dei Ministri è l’ennesimo assalto all’Isola in tema di energia rinnovabile. Questa volta a finire sotto attacco sono i potenziali giacimenti di materie critiche e rare, fondamentali per la transizione ecologica a motrice cinese e americana. Con almeno dieci anni di ritardo lo Stato si è reso conto di essere maledettamente in ritardo su materie rare e critiche.

Furbetti della Dolce vita

Per recuperare il tempo perduto si affida allo strumento più versatile della legislazione parlamentare: «Decreto legge recante “Disposizioni urgenti sulle materie prime critiche di interesse strategico». Peccato, però, che, nel dispositivo legislativo, i “furbetti” della celebre strada della Dolce Vita, nel cuore di Roma, sede del Ministero del Made in Italy, “infilino”, nelle pieghe della norma sulle “materie rare”, il più subdolo degli attentati all’Autonomia Sarda. Sanno dove devono colpire. Hanno ben chiaro che le miniere, quelle aperte e chiuse, sono dislocate soprattutto in Sardegna. E sanno che in quest’Isola, violentata da sempre in terra e sottoterra, vige una norma statutaria, di rango costituzionale, l’articolo tre lettera “m”, con la quale la Sardegna gode, da settantasei anni, la competenza primaria in tema di «patrimonio e demanio minerario». Per scippargli quella “competenza primaria” esiste solo una clausola, subdola e vigliacca: dichiarare il provvedimento legislativo «riforma economica sociale». La presunzione del dicastero del “Fatto in Italia” non ha confini. Detto fatto. Articolo due, «Principi applicabili nei rapporti con le Regioni»: «Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano in quanto contengono principi fondamentali di riforma economico sociale». È lì che volevano arrivare, senza pudore e senza fronzoli, con l’obiettivo di “mettere le mani” su quelle miniere che, secondo i report riservati di cui ci siamo occupati nei mesi scorsi, nasconderebbero nelle viscere della terra un potenziale importante di “materie rare” e “critiche”. Uno scippo di “competenze” senza precedenti, adducendo una «riforma economico sociale» inesistente, un richiamo a quel grimaldello con il solo obiettivo di “aggredire” l’autonomia sarda e mettere sotto l’egida di Roma la gestione delle miniere. Anche in questo caso, se la Regione sarda non impugnerà quel decreto, si rischia un precedente gravissimo in grado di condizionare l’intero articolo tre dello Statuto, quello delle competenze «primarie» in capo alla Regione. Aver invocato i termini di “una riforma economica e sociale” non solo è una mossa maldestra, ma lascia trasparire un atteggiamento “predatorio” dello Stato capace di cancellare l’Autonomia regionale della Sardegna con un blitz ingiustificato e spregiudicato. Il piano da “mani sulle miniere sarde” è declinato in chiave nazionale, ma è fin troppo evidente che l’obiettivo inconfessabile è plurimo.

Tre fronti sardi

Nel decreto, infatti, ci sono almeno tre versanti sardi ben definiti: ci sono le miniere aperte e da riaprire, ci sono le materie rare da riciclare e, infine, i grandi rifiuti minerari, quelle dighe di sterili che solo nell’area iglesiente-guspinese ammontano ad oltre 100 milioni di metri cubi. Nell’ordine: al primo posto ci sono le miniere “profonde”. In questo caso l’obiettivo del Governo è rivolto agli antichi pozzi di Silius, nel cuore del Sarrabus: «miniera denominata “Genna Tres Montis” per minerali di Fluoro, Piombo, Zinco, Argento e Barite in territorio dei comuni di Silius e San Basilio con impianto di trattamento mineralurgico nel comune di Assemini». È solo nel 2022 che una “manina” regionale aggiunge la parola magica: «Concessione mineraria per minerali noti e “terre rare”». Pur essendo una società inattiva, è la «Mineraria Gerrei srl» a presentare alla Regione un progetto di adeguamento con l’inserimento “coatto” del nuovo business, quello delle “materie critiche”. Una miniera sotto osservazione internazionale visto che il 27 luglio di un anno fa una nostra inchiesta rivelava l’avvento nella compagine azionaria del colosso di “Aruba S.p.A” con il 51% della “preveggente” società mineraria. Un colpo ad effetto che ora rischia di farla ritornare sull’agone delle concessioni da mettere a gara, questa volta in mano allo Stato. Una partita che, nel silenzio di tutti, vede coinvolto il più importante provider italiano nel mondo, con un patrimonio infinito di Data Center in mezza Europa e da qualche anno alla conquista del mercato cinese.

Aruba & Muscadroxiu

Una scalata alla miniera di “Muscadroxiu” rimasta nell’ombra, ma che ora ritorna prepotentemente in auge con il provvedimento del Governo. Si tratta di capire se il Governo tenterà di rimettere in discussione anche questa concessione nonostante la Regione avesse già da tempo definita la vicenda. Al “governo” del “sottosuolo” si aggiunge il secondo obiettivo del decreto legge: creazione del «Punto unico nazionale di contatto e termini massimi per il rilascio delle autorizzazioni ai progetti di riciclo e trasformazione». Non è difficile leggere in questa norma un richiamo alla “Portovesme Srl”, l’industria metallurgica del Sulcis dedita alla produzione di Piombo e Zinco.

Black mass

Una società svizzera, multinazionale, sponsorizzata come poche nei potenti uffici dei Ministeri di Roma che lo scorso anno, aveva presentato, senza troppo successo, un progetto per la «realizzazione del nuovo impianto dimostrativo per la produzione di carbonato di Litio e Ossidi di Metalli Misti dal trattamento di Black Mass». Un piano devastante, con uno sbarco in grande stile di navi provenienti da mezzo mondo cariche di “Black Mass”, la massa nera che i signori della “Glencore”, proprietari dello stabilimento sulcitano, acquisirebbero direttamente dai loro partner canadesi della Li-Cycle, coloro che produrrebbero questo miscuglio di veleni triturati da batterie raccattate in giro per il mondo. La procedura autorizzativa perseguita dalla società svizzera non ammetteva sotterfugi: «Impianti di smaltimento e recupero di rifiuti pericolosi». Ora, quel termine “riciclo” di materie rare e critiche riaffiora stranamente dopo la bocciatura regionale nel testo del decreto governativo aprendo un varco imponente per tentare di far passare da Roma ciò che è uscito dalle finestre della Regione. Il terzo capitolo del decreto, che punta direttamente sulla Sardegna, è racchiuso, come in uno scrigno, all’articolo nove: «Norme per il recupero di risorse minerarie dai rifiuti estrattivi». Sanno di cosa parlano negli uffici di Roma: in quelle montagne di sterili, tra Monteponi e Montevecchio, Campo Pisano e San Giovanni si stimano – secondo il piano australiano depositato alla Borsa dei metalli di Londra - 89,2 milioni di tonnellate di materiale con tenori di 2,07% di zinco e 0,56% di piombo. Tradotto: quei cumuli di “polvere” contengono oltre 1,8 milioni di tonnellate di zinco e quasi 500.000 tonnellate di piombo. I calcoli sono miliardari: dentro quei fanghi “rossi” e non solo ci sarebbero tenori di piombo e zinco per oltre 3 miliardi e mezzo di euro. Lo scrivono apertamente nel decreto: «Considerata la significativa quantità di rifiuti di estrazione in strutture di deposito chiuse e il correlato potenziale in termini di materie prime critiche» si deve predisporre un «Piano di recupero di materie prime dai rifiuti di estrazione storici». Quel potenziale, che in Sardegna la Regione ha sistematicamente ignorato, diventa “progetto strategico” per Roma: «L'estrazione di sostanze minerali nelle strutture di deposito di rifiuti estrattivi, chiuse o abbandonate, per le quali non è più efficace il titolo minerario, può essere concessa solo a seguito dell’elaborazione, da parte dell’aspirante concessionario, di uno specifico “Piano di recupero di materie prime dai rifiuti di estrazione storici”».

Il tesoro nascosto

A imporre quella norma sul recupero di quel potenziale metallifero era stato l’ulteriore studio dell’Ispra che aveva messo tutto nero su bianco: «Tali depositi potrebbero rappresentare un’importante fonte di “materie prime seconde”. In genere hanno buone potenzialità minerarie, con tenori anche elevati come nel caso dei fanghi rossi di Monteponi (Iglesias), per i quali è accertato un contenuto medio del 7-8% in zinco. In diversi casi i depositi di stoccaggio contengono anche quantitativi interessanti di Materie Prime Critiche (es. Terre Rare a Silius), ma molto deve essere ancora fatto in termini di caratterizzazione e di riutilizzo totale dei materiali». Ultimo dettaglio: lo Stato si “frega” la “competenza primaria”, le miniere, gli accumuli di materiali e anche le “royalties”. Il “guadagno” per il pubblico viene fissato tra il 5 e il 7%, ma finisce tutto nelle casse dello Stato. Alla Regione resta solo il potere di ricorrere alla Corte Costituzionale contro il “golpe” di Roma sulle miniere sarde.

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