Fortunato Ladu ricorda un tempo in cui "coi soldi della vendita della lana riuscivo a comprare dai 60 ai 70 quintali di mangime". Trent'anni fa, dice l'allevatore desulese al telefono dalla sua azienda nelle campagne al confine tra Pabillonis e Guspini.

"Il gregge aveva un certo potere d'acquisto, e valeva anche la lana che ci veniva pagata 1900 lire al chilo". Oggi il costo del mangime è alle stelle, il latte è pagato spiccioli e la lana, figurarsi. "Ho un gregge di 300 pecore, il prodotto viene pagato 20 centesimi al chilo, ogni capo produce in media un chilo e mezzo di lana... Insomma, ci ricavo poco più di cento euro". Tenuto conto che bisogna poi pagare la manodopera (le squadre più richieste sono quelle dei neozelandesi, ma questa è un'altra storia da raccontare) - 1,60 euro a capo - capite perché il signor Ladu finisca per sbottare: "Non mi sono ripagato neanche la birra per la cena della tosatura".

LA STORIA - Da piccola integrazione al reddito dell'ovile, qual era fino agli anni Ottanta, la lana di pecora è diventata uno scarto. "Uno scarto da smaltire, visto che viene pagata nulla", puntualizza Ladu. È per questo che ha chiamato a raccolta gli amici, i colleghi. Il fronte della protesta per la tutela del vello di pecora.

"Oggi siamo 400 allevatori, mettiamo insieme 30 mila capi ovini. Non vogliamo alimentare la speculazione in un mercato che, considerati i più moderni utilizzi di questo prodotto nella bioedilizia e nella bonifica dei fondali, potrebbe pagare la lana ai pastori anche a 1,70 euro".

Semplicemente, loro non svendono la lana. Finita la tosatura (questi sono i giorni in cui si stanno ultimando le operazioni anche nelle aziende di montagna, le ultime a liberare le pecore dal vello invernale) hanno raccolto il prodotto nei sacchi, «in attesa di un mercato diverso, più sano. Cosa ne faremo in alternativa? Concime, daremo la lana alla terra".

ORBACE GLORIOSO - Detta così vale come una provocazione (anche se la lana ovina viene sì utilizzata come fertilizzante, in quanto ricca di azoto e zolfo, dopo un trattamento particolare), ma rende bene l'idea di un prodotto che "da quindici anni a questa parte - sottolinea Battista Cualbu, presidente regionale di Coldiretti - da piccolo introito è diventato un costo".

Per dire, la vendita della lana non copre neanche la metà delle spese della tosatura. "Una volta la lana aveva un valore. Mio padre mi raccontava che settant'anni fa lo smercio veniva addirittura abbinato alla vendita del formaggio". Erano gli anni dell'autarchia proclamata dal governo fascista, il lancio della moda italiana, dell'orbace glorioso tessuto nostrano, buono non solo per tessere coperte e tappeti ma anche per confezionare capi di abbigliamento. "Col tempo l'utilizzo è diminuito drasticamente. Oggi un buon impiego è la bioedilizia".

Il settore della Edilana di Guspini, l'azienda dell'imprenditrice Daniela Ducato. Ma il grosso - tenuto conto che in Sardegna ci sono 3 milioni e 300 mila capi ovini - finisce comunque nel mercato svilente del sotto costo. "Ci sono pochi commercianti che ritirano il prodotto, è un monopolio". Mediatori che arrivano dalla Sicilia e dalla Campania, il prezzo lo fanno loro.

L'ESPERIMENTO - Cualbu racconta di quando Coldiretti riuscì a mettere insieme gli allevatori decisi a combattere la speculazione. "Tre anni fa questo gruppo riuscì a farsi pagare la lana a 1,22 euro al chilo". È finita lì, l'esperimento non è stato più ripetuto. "Ci fu chi tentò di strumentalizzare la nostra iniziativa", spiega il presidente di Coldiretti.

IL FILONE BIO - Il professor Giuseppe Pulina, docente universitario di Agraria ora impegnato ad amministrare l'agenzia regionale Forestas, puntualizza il carattere di "sottoprodotto" della lana sarda, visto che "le nostre pecore sono state selezionate per la produzione del latte ed è bene continuare su questa linea".

Una lana "di scarsa qualità sotto il profilo tessile, perché ricca di giarra (la parte più ispida del vello, ndr ), ma oggi oltre alla bioedilizia si potrebbe pensare anche ad altri impieghi. Ad esempio, si tratta di lane biologiche buone per la tessitura di tappeti naturali, visto che gli allevatori sardi non usano antiparassitari come invece succede altrove".

FILIERA MANCATA - Sarà possibile in un'Isola che, pur possedendo il più importante patrimonio ovino d'Italia, non riesce a far valere il suo peso sul mercato? Vale per il latte, vale per la lana. "Nonostante il volume prodotto non c'è ricaduta della produzione nell'industria", dice Pietro Tandeddu, coordinatore regionale di Copagri. Il punto, avvisa Maurizio Onorato, direttore di Confagricoltura, "è che non si è mai pensato alla pecora nel complesso, ma solo in quanto produttrice di latte. Non si è riusciti a creare una filiera".

Piera Serusi

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