Irene Testa è la prima garante per i detenuti nominata in Sardegna. Suo il compito di vigilare sui diritti di chi «è sottoposto a misure restrittive della libertà personale», recita il decreto con la quale il Consiglio regionale le ha assegnato l'incarico. Era gennaio 2023. Prima della Testa, nessuno mai nell'Isola ha potuto ricoprire questo ruolo perché la politica, colpevolmente, per dodici anni non ha ottemperato alla legge istitutiva del 2011.

Con la Garante, comincia oggi su queste pagine un approfondimento in tre puntate che proseguirà con le interviste a Maria Grazia Caligaris e a Gianfranco Pala: l'una è socio-fondatrice dell'associazione “Socialismo Diritti Riforme” che si occupa di detenuti; l'altro è lo storico direttore di tanti penitenziari sardi, in pensione dal 2018.

Testa, 50 anni, originaria di Tonara, ha alle spalle una lunghissima esperienza in tema di diritti e tutele di chi è costretto a una vita in cella.

Garante Testa, nomina con record la sua, dopo un vuoto lungo dodici anni.

«È vero, c'è voluto tanto tempo prima che in Sardegna venisse fatta questa nomina, decisa dal Consiglio regionale. Ma il passo, anche se tardivo, è stato importantissimo».

In questi nove mesi di attività istituzionale cos'ha visto?

«Ho visto e visitato gli ultimi. Ho appurato che verso di loro c'è poco interesse. Parlo di ultimi perché si tratta di persone rinchiuse dentro scatole dove lo Stato di diritto fondamentalmente muore. Nessuno mette in dubbio che chi viene privato della libertà abbia sbagliato. Ma questo non dovrebbe autorizzare a lasciare questi cittadini in una condizione di abbandono».

C'è un colpevole?

«Le istituzioni. Purtroppo in materia di carceri legiferano di rado. E le poche norme che ci sono e potrebbero agevolare i detenuti, sono in gran parte disapplicate. È più semplice far finta di non vedere e lasciare che tutto dipenda dalla buona volontà di chi ci lavora nei penitenziari. Ma se un direttore non ha a disposizione sufficiente personale, è chiaro che chi sconta la pena non può essere sottoposto ai trattamenti. Gli agenti sono ugualmente sotto organico: hanno turni massacranti e devono gestire anche situazioni che sarebbero di competenza degli psichiatri. I quali, allo stesso modo, sono insufficienti. In un contesto simile viene difficile tutelare i diritti».

In Sardegna ci sono dieci penitenziari. Li ha visitati tutti?

«Mi manca solo quello di Tempio Pausania. Ma la visita è già in programma».

A leggere il rapporto dell'associazione Antigone, la nostra Isola sembra non conoscere sovraffollamento: 2.070 detenuti a fronte di 2.617 posti. Invece il dato è viziato dai numeri delle colonie penali che rappresentano il modello perfetto di penitenziario, con percorsi veri di recupero, ma sono sottoutilizzate. Qual è la situazione sarda reale?

«Anche da noi ci sono penitenziari affollati e in emergenza: succede a Uta e a Bancali».

Stando agli ultimi dati dell'associazione “Socialismo, Diritti, Riforme”, a Cagliari, a fronte di 561 posti, ci sono 589 detenuti, di cui 111 stranieri e 24 donne. A Sassari, la capienza è di 454, ma i reclusi sono 456, di cui 116 stranieri e 17 donne. Conferma?

«Confermo e aggiungo che oltre la metà dei detenuti non dovrebbe stare lì».

Perché?

«Le persone in sofferenza psichiatrica non si tengono in carcere, ma dovrebbero essere trasferite nelle Rems, le residenze ad hoc, nate per l'esecuzione delle misure di sicurezza su quanti hanno importanti disagi. Ma in Sardegna ce n'è una sola, a Capoterra, e ha appena sedici posti letto. Quindi si sceglie di lasciare queste persone in celle dette “lisce”, cioè senza nemmeno materasso, per evitare che lo brucino, ma solo con un letto in ferro. Stesso discorso per i tossicodipendenti: il loro posto sono le comunità di recupero. Anche perché si tratta di persone che hanno bisogno di un supporto farmacologico, oltre che affettivo. Chi non regge il sistema, si suicida. Di recente, quando ho scritto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per denunciare la situazione nelle carceri sarde, mi sono trovata disarmata: ho avuto difficoltà a spiegare quello che ho visto, specie nelle cosiddette aree di transito. Ci sono persone dimenticate che passano le giornate a fissare il muro. Lo Stato, evidentemente, li considera un disturbo per la società».

In Sardegna sembra esserci una “emergenza direttori”: dal “Continente” nessuno vuole venire qui.

«A quanto pare sì. E a complicare la situazione è arrivato il drammatico incidente stradale nel quale è rimasta coinvolta Patrizia Incollu, alla guida dei penitenziari di Nuoro, Lanusei e Mamone, ricoverata da giorni in gravi condizioni. Nello scontro ha perso la vita il capo coordinatore della Polizia penitenziaria. Adesso in due, Marco Porcu ed Elisa Milanesi, hanno in mano le dieci reggenze sarde».

In un carcere degno di un Paese civile, quale dovrebbe essere la giornata tipo di un detenuto?

«La rieducazione passa dal lavoro. E dallo studio. Invece sono pochissimi i detenuti fortunati, quelli che hanno un impiego e riescono a fare attività».

Per quale motivo?

«Intanto ci sono ragioni di sicurezza e di spazi: i detenuti non possono essere spostati tutti insieme nelle aule. Ma nella gran parte dei casi non si fa leva sulla loro motivazione».

Diciamola diretta: mancano i percorsi di recupero.

«Purtroppo sì, la rieducazione è sempre più un'illusione. La costante è una cella divisa in tre, quattro e cinque. Lì passano il tempo, senza fare attività. L'importanza del lavoro in carcere non è un tema che sollevo io: lo stabilisce l'articolo 27 della Costituzione. Peraltro, quel poco di mestieri che si fanno in carcere non sono professionalizzati. Gli impieghi sono lo scopino, lo scrivano, l'addetto alla mensa o alla consegna del cibo nella celle. In ogni caso parliamo sempre di un numero esiguo di detenuti. Bisogna invece costruire interazioni tra i penitenziari e le aziende. La società può avere indietro un detenuto riabilitato, solo se questo lavora e impara un mestiere: allora sì che sarà in grado di non nuocere più. Oggi, nella gran parte dei casi, dai penitenziari si esce peggio di come si è entrati. E quasi sempre con debiti contratti per pagare un avvocato».

Esempi di aziende che lavorano con i detenuti?

«A Uta ci sono detenuti che riparano telefoni e decoder per conto di ditte esterne. Ma il modello più importante che abbiamo in Sardegna, un'eccellenza nazionale, è dato dalle colonie penali agricole di Is Arenas, Isili e Mamone. Eppure rischiano la chiusura».

Come sono organizzate?

«Ogni detenuto ha un lavoro: c'è chi fa il pastore, chi cura gli orti, chi si dedica alla viticoltura, chi si occupa di altri animali. Tutti vengono impiegati in una qualche attività e così possono pagare allo Stato il vitto e l'alloggio».

Il pagamento del vitto e dell'alloggio è un tema di cui si parla pochissimo.

«Ignorato dai più. In realtà è un obbligo di legge, a cui quasi tutti i detenuti non possono ottemperare, visto che sono nullafacenti e nullatenenti. Nelle colonie penali, invece, i detenuti riescono anche a onorare il loro debito nei confronti dello Stato. Non solo: vivono in penitenziari da cui non hanno interesse a scappare. Sono inesistenti pure i rapporti disciplinari perché il clima con gli agenti è disteso. Chi è detenuto nelle colonie penali ha una quotidianità soddisfacente, non è arrabbiato col sistema».

Chi sceglie la destinazione di un carcere tradizionale o la colonia penale?

«Se ne occupa una commissione ad hoc. Ma i criteri sono talmente restrittivi che vi rientrano pochissimi detenuti».

Da garante che appello fa sul tema?

«Invito a rivedere, ripensare e riadattare le regole di accesso. Mamone, per esempio, è un patrimonio che non può andare disperso. Servono risorse. Ci sono troppi caseggiati in stato di abbandono. Quando sono andata in visita in questi mesi, ho visto le botti di vino, pregiatissime, senza cura. Ci sono norme nazionali che aiuterebbero le aziende a investire in progetti con le colonie penali. Penso alla legge Smuraglia: abbatte l'aliquota assicurativa. Chi assume un detenuto, non paga tasse e in più avrebbe un contributo di 500 euro mensili. Quando invito alla necessità di rivedere i criteri di accesso alle colonie penali, penso anche ai tossicodipendenti, quegli spazi si prestano a essere convertiti in comunità. Inoltre è assurdo che alle detenute non sia garantito l'accesso. Sarebbe ora di rivedere una legge datata 1930».

Il 41 bis, il carcere duro, serve a qualcosa?

«Ci vuole equilibrio. Io credo che dovrebbe essere riconsiderato e anche maggiormente diversificato. Perché spesso e volentieri sull'onda dell'allarme sociale abbiamo assistito a un abuso nell'applicazione di questa misura».

L'articolo 27 del Codice penale prevede la possibilità di isolamento diurno, sino a tre anni, per i pluri-ergastolani. Ma le Mandela rules delle Nazioni Unite fissano il limite a quindici giorni. Lei da che parte sta?

«Ci sono anche sentenze della Corte costituzionale che condannano il surplus di vincoli detentivi. Sono temi su cui molta politica fonda i propri proclami sulla sicurezza. Io dico che alcune norme sono puramente afflittive e non rieducative».

Quando ci sono omicidi che colpiscono l'opinione pubblica, sui social il commento che va per la maggiore è “buttare la chiave”. Che effetto le fa?

«Capisco che la prima reazione sia la rabbia. Ma uno Stato di diritto non si può basare solamente su questo. Ho avuto un colloquio con una persona che ha compiuto un reato gravissimo. Ha problemi psichiatrici, e solo in seguito a terapia si sta rendendo conto di quanto ha commesso. Ho percepito un dolore lacerante come mai mi era accaduto prima. Per la vita si porterà dietro un tormento».

Chi si può rivolgere a lei?

«Qualunque detenuto. Io ricevo lettere quotidianamente. Mi scrivono anche tante madri di persone private della libertà. Però dall'altra c'è una società che si dimostra poco informata e tende a vedere i penitenziari come luoghi in cui deve prevalere la sofferenza. Un po' la legge del taglione. Invece il faro deve essere il diritto, non il reato. Su questo versante, c'è una cosa su cui insisto: i detenuti prima o poi usciranno. A tutta la società converrebbe avere persone migliori alla fine di questo percorso, non più arrabbiate e incattivite».

Ergastolo: favorevole o contraria?

«Contraria. La pena, senza dubbio alcuno, va scontata. Ma credo nel recupero. Il carcere piega chiunque. Dopo venti-trent'anni di detenzione, si è per forza cambiati. Tutti hanno diritto a una speranza».

Pena di morte: in Italia, di tanto in tanto, se ne parla ancora. Si sorprende?

«Più che altro, mi deprimo, perché facciamo tanto per essere un Paese democratico e vantarci di esserlo».

Il carcere di Tempio ospita solo detenuti in regime di massima sicurezza. È d'accordo?

«Sono scelte che spettano al Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Ma in generale credo che sia spropositato e non accettabile il numero di detenuti che stanno nei nostri penitenziari in regime di alta sorveglianza, quindi usciti dal 41 bis, o ancora sottoposti al carcere duro. Sono più di mille, quasi tutti non sardi, e rappresentano oltre la metà dei detenuti totali».

Le cronache danno conto dei suicidi in carcere ma quasi mai si racconta che a togliersi la vita sono pure tanti agenti.

«È vero. E devo dire che spesso trovo menefreghismo nei confronti della Polizia penitenziaria. Tutto ricade su di loro. Si devono occupare anche di soccorrere i detenuti che stanno male. Io ho passato tante ore nelle sezioni cosiddette di transito, dove vengono tenute le persone più difficili. La situazione è pesantissima: urla, lanci di cibo, di piatti. Addirittura panini riempiti con escrementi».

Nel suo libro “Il fatto non sussiste” parla di malagiustizia. Come si combatte?

«Con la giustizia sana, che per fortuna continua a esistere. La Procura di Cagliari ha chiesto la revisione del processo nei confronti di Beniamino Zuncheddu, in cella da trentatré anni ma ormai si può dire innocente».

Una vita perduta, però.

«Certo, nessuno potrà restituirgli il troppo tempo trascorso in carcere. Il peso degli errori giudiziari è scritto in quei miliardi che ogni anno il ministero dell'Economia sborsa per risarcire gli innocenti. Ogni giorno in Italia tre persone finiscono ingiustamente in una cella».

Chi è più ricco, fa meno carcere: è una teoria con un fondamento?

«Non è vero in assoluto. Ma chi ha meno capacità economica, fa più fatica a difendersi».

Colletti bianchi: in carcere sono trattati diversamente?

«Mi verrebbe da dire che in carcere nessuno porta la camicia. Io quando incontro i detenuti, perché ricevo la richiesta di colloquio, non so neanche chi mi trovo davanti. Non chiedo perché siano lì. La tutela dei diritti non ammette deroghe né differenze».

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