Claudia Campus è una ex “bambina-farfalla”, un modo per indicare la particolare condizione dei più piccoli affetti da malattie rare che li rendono particolarmente fragili. Aveva 13 anni quando è arrivata da Berchidda a Roma per essere curata in un ospedale. Ora ne ha 40, compiuti pochi giorni fa, e l’epidermolisi bollosa non l’ha abbandonata. Si tratta di una patologia genetica della pelle che coinvolge anche le mucose. Non esiste una terapia risolutiva e ogni giorno sono necessarie medicazioni specifiche avanzate. Si calcola che in Italia colpisca un bambino ogni 82mila.

Ha sempre dimostrato di saper affrontare con determinazione tutti gli ostacoli ripetendo il suo motto: «Una vita mi è stata data, questa. Io cerco di viverla ogni giorno nel miglior modo possibile». La sua esperienza oggi è stata impressa sulle pagine di “Perfettamente imperfetta”, il libro che ha scritto e che ha presentato davanti ai medici e alle famiglie che ha conosciuto nel reparto del Bambino Gesù dove da 10 anni è “di casa”.

Claudia Campus ,40 anni, di Berchidda (foto concessa)
Claudia Campus ,40 anni, di Berchidda (foto concessa)
Claudia Campus ,40 anni, di Berchidda (foto concessa)

L’obiettivo del volume è inoltre quello di parlare ai ragazzi, soprattutto «a quelli più fragili, che non si accettano». «Se mi accetto io – dice -, nonostante tutti i limiti che mi ha imposto la malattia, tra cui l’amputazione di un arto, potete farlo anche voi, andando avanti con coraggio».

Cosa vuol dire essere affetti da epidermolisi bollosa?

«Una lotta quotidiana, è una malattia che riguarda la pelle, si formano delle bolle simili alle ustioni di terzo grado, ogni giorno vanno curate con medicazioni anche dolorose, io cerco di stringere i denti. Si sviluppano su tutto il corpo, anche internamente. Nel mio caso all’esofago e ogni tanto devo essere sottoposta a dilatazioni».

Si medica da sola?

«Fino a quando era in piedi sì, oggi non riesco. Ho comunque cercato di avere una vita il più normale possibile, questa è una malattia fatta di sacrifici, sofferenza e tanti “no”».

Quali ad esempio?

«Se fosse per i medici non dovrei indossare i jeans, perché potrebbero provocare ferite, così come il semplice girarsi nel letto potrebbe creare lesioni». 

Qual è stato lo sviluppo della malattia?

«Sono nata così, all’ospedale di Ozieri nel 1983, e ai miei genitori avevano suggerito di battezzarmi in fretta perché non si sapeva quanto avrei potuto vivere. La diagnosi non è stata fatta subito ma è normale: all’epoca non si sapeva quasi cosa fosse l’epidermolisi bollosa. Poi a Sassari è arrivato un medico da Roma ed è stato tutto chiaro».

Qual è l’aspettativa di vita?

«Chi arriva ai 50 anni deve considerarsi stra-fortunato. Per me il traguardo dei 40 è stata una cosa bellissima».

Claudia Campus (foto concessa)
Claudia Campus (foto concessa)
Claudia Campus (foto concessa)

Come è arrivata all’amputazione?

«Quando avevo 30 anni è stato individuato un carcinoma al piede sinistro, riconosciuto non tempestivamente, e sono arrivata al Bambino Gesù che la situazione era già grave. Il carcinoma è stato asportato parecchie volte, ma io sentivo che l’evoluzione sarebbe stata drammatica. Alla fine ho preso io la decisione di amputare dopo un anno e mezzo passato con morfina, senza dormire e arrivando a pesare 27 chili. Quella non era vita».

Quali sono oggi le più grandi preoccupazioni?

«Dato che in Sardegna questa malattia è poco conosciuta provo un po’ di angoscia a pensare che, se mi succedesse qualcosa, non saprebbero cosa fare». 

La quotidianità?

«Le mie giornate sono tutte uguali a meno che non abbia un impegno, o vada a Olbia a fare un giro, o per negozi. Mi alzo alle 9, aspetto le persone che mi assistono, poi le medicazioni e ci vogliono delle ore».

Le malattie rare sono davvero un campo in cui le grandi multinazionali non investono?

«Sì. Sono stati fatti degli studi per cure sperimentali, si investe un minimo, non so fino a quanto. Comunque è una malattia non curabile, ci sono bambini che non arrivano a 10 anni. A volte ci si mette anche la burocrazia, ho dovuto lottare con le unghie e con i denti per avere accesso al progetto “Ritornare a casa” di sostegno alla domiciliarità per le persone con disabilità gravissime. Pensi che la prima volta sono stata esclusa. Mi sembra incredibile ma non mi sono arresta. Una cosa è sempre bene tenere presente: anche tutti noi malati abbiamo una dignità».

Alla presentazione del suo libro (foto concessa)
Alla presentazione del suo libro (foto concessa)
Alla presentazione del suo libro (foto concessa)

Di cosa parla il suo libro?

«Della mia vita e anche della malattia ma in forma “leggera” non mi piace appesantire le persone. Ho raccontato di Claudia, di quanto fossi una peste quando ero piccola. E di tutti i “no” che ricevevo e cercavo di trasformare in “sì”. Ad esempio mi ero iscritta di nascosto da mio padre a scuola guida. Lui aveva paura che non potessi condurre una macchina per i problemi di deformazione alle mani e invece ce l’ho fatta. Io alla fine volevo la vita di una ragazza come tutte le altre, anche con tutto il mio carico di medicazioni. Però qualche rimpianto ce l’ho».

Quale?

«Non aver potuto proseguire gli studi. A Berchidda non ci sono le scuole superiori quindi andavo a Olbia: mi alzavo alle 5 per le medicazioni e riuscire a prendere il pullman alle 7, tornavo nel tardo pomeriggio, ed ero stanca. I valori dell’emoglobina erano bassi, insomma ho dovuto rinunciare». 

Quali sono i messaggi che vuole trasmettere?

«Soprattutto quello di speranza ai giovani e alle persone fragili: non sentitevi diversi e non fate caso a ciò che la società impone. Dobbiamo prima di tutto piacere a noi stessi. Quando sento di ragazzi che si tolgono la vita mi si strazia il cuore. La forza la dobbiamo trovare prima di tutto in noi stessi. I genitori provano ad aiutarci ma non sempre ci riescono. Se mi accetto io, che vado anche al mare e mi metto il costume da bagno, perché un giovane che ha – secondo lui – una diversità deve rinunciare a vivere per i pensieri cattivi degli altri?».

La famosa frase “Siamo tutti perfettamente imperfetti”.

«Esatto, quella che ho detto alla presentazione del libro al Bambino Gesù. Se mi guardo intorno vedo proprio quello».

Anche lei è stata una ragazza fragile?

«Tante volte, e tuttora a volte lo sono. Cerco di esserlo però quando sono da sola, non voglio mostrare agli altri la mia fragilità, non tutti la possono capire».

Quali sono stati i momenti più difficili?

«L’amputazione, psicologicamente non ho voluto un supporto perché era una cosa che dovevo accettare prima di tutto io, da sola. E poi le medicazioni soprattutto quando avevo 13 anni, quando la malattia è peggiorata. Dico sempre che ho smesso di giocare con la bambole e ho iniziato a giocare a scacchi con la morte. E poi quando sono venuti a mancare mia nonna e, tre anni fa, mio padre Tonino».

E i più sereni?

«Dai 19 ai 30 anni, avevo giornate fatte di amici, discoteca, spiaggiate. Non rinunciavo a niente, uscivo la mattina con la macchina ed ero capace di tornare la notte».

Non è più facile essere arrabbiati con la vita?

«A giorni lo sono, quando sto veramente male. Questa malattia mi ha insegnato ad apprezzare le piccole cose, quelle a cui quasi tutti non badano. Caccio la malinconia cantando. Quando è morto mio padre è stata dura, sono malata da sempre ma non avevo mai pensato a una vita senza di lui».

Chi sono le persone che più l’hanno sostenuta?

«Le tante persone che mi assistono oggi e in passato, tra cui anche Patrizia, che ha preso a cuore la mia situazione ed è con me da tanti anni, e poi la famiglia, i miei amici e gli amici di mio padre. Insieme alle associazioni che seguono i malati e a tutti i medici che mi hanno in cura, se sono qui oggi è grazie a loro».

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