Efisio Manunza, intraprendente agricoltore del Campidano di Sestu, non aveva mai avuto la patente. E nemmeno la macchina. L'unico mezzo di trasporto era un possente giogo di buoi attrezzato di tutto punto per trascinare irruenti vomeri in aperta campagna. Era, però, un contadino all'avanguardia, tanto da abbonarsi alla rivista specializzata «il Coltivatore». Un periodico che dispensava consigli sulla rivoluzione industriale nel mondo agricolo. Il 17 febbraio del 1903 un serafico telegramma irrompe sull'uscio della sua abitazione nel paese a due passi da Cagliari. Le parole sono esplicite, impresse con mano instabile e scrittura incerta: "Vostro buono 1102 guadagna primo premio automobile, firmato Amministrazione Coltivatore". Difficile dar credito a quello svolazzante foglietto pieno di timbri postali dal contenuto inverosimile. In Sardegna di macchine, sino ad allora, non ne era mai comparsa nemmeno una. Il pomeriggio del 15 luglio dello stesso anno, però, al porto merci di Cagliari davanti a piazza Deffenu, sbarcò, con tanto di gru, una modesta quanto insolita quattro ruote a motore. Vettura francese, una Vermorel, motore a scoppietto, dalle prestazioni limitate ma pur sempre la prima macchina sbarcata in Sardegna. Attraversò la via Roma tra lo stupore generale, con alla guida il meccanico della fabbrica. Sarebbe rimasta al centro di Cagliari se non fosse giunto in soccorso un possente giogo di buoi, l'unico che poteva essere guidato senza patente dal nuovo fortunato proprietario. Giunse nella rimessa dei mezzi agricoli e lì a lungo vi rimase.

Isotta sui binari

Dal giogo di buoi alle strade ferrate il passo fu breve. Il 22 aprile dell'anno successivo, il 1904, da Milano, era venerdì, partì alla volta della Sardegna Federico Johnson, commendatore, direttore generale del Touring club d'Italia. L'obiettivo era quello di girare l'Isola con quella che si rivelò la prima vera macchina che attraversò in lungo e in largo la brulicante terra di Sardegna. L'attendevano mulattiere e strade impervie. Il giorno successivo raggiunse La Spezia e da lì si imbarcò per Golfo Aranci, approdo sicuro per il piroscafo "Candia", con a bordo una fiammante "Isotta Fraschini" 16 cavalli. Quando le prime luci dell'alba del 26 aprile cominciarono a irradiarsi su quel tratto di mare davanti a Cala Moresca, l'imbarcazione faticò non poco all'ormeggio e ancor di più nella titanica impresa di scaricare intatta la pionieristica "Isotta".

Ci riuscirono, ma non andarono lontano. Il porto non aveva nessuna strada di collegamento con Olbia e il resto della Sardegna. Unica strada possibile era quella ferrata. A Golfo Aranci, ancor prima delle strade, infatti, a congiungere il mare con la terra ferma fu il binario. Non si persero d'animo. Caricarono la Fraschini su un carro ferroviario e raggiunsero in treno Terranova, l'attuale Olbia.

I binari avanzati

I binari, tanti, sono rimasti gli stessi di allora, nell'unico porto ferrato della Sardegna. E anche in quel caso l'approdo su rotaie fu casuale. Nel 1880 la Reale Compagnia delle strade ferrate sarde completò il collegamento tra Chilivani e Olbia. Avanzò una quantità ciclopica di binari e traversine. La società impegnata nella costruzione chiese di poter osare sino a Capo Figari, al secolo Golfo Aranci. Per dar manforte al progetto si sostenne che il varco del porto di Terranova fosse complicato. Le navi, si disse, rischiano continuamente di arenarsi. Meglio far approdare la nave-postale a ridosso del proscenio di Golfo Aranci. Il governo, che anche allora non dovette spendere niente di più, consentì, accogliendo la pressione di latifondisti e politici locali. Ora anche quello scalo è precluso e dimenticato. Interdetto da Civitavecchia e da Livorno, dove hanno smantellato impunemente i binari, proprio con l'obiettivo di precludere per sempre lo sbarco in Sardegna di carri ferroviari e locomotive. Un puzzle che, se messo insieme, tra ieri e oggi, ripropone uno scenario di sudditanza infrastrutturale ed economica a tinte fosche e irriverenti.

Odissea degli Swing

Non si può spiegare diversamente la sequenza dei fatti che in questi giorni fa emergere in maniera dirompente l'isolamento strutturale della Sardegna. Vi abbiamo raccontato del viaggio infinito, dopo un ritardo di 700 giorni nella consegna, di quattro treni formato «Swing», mica una flotta. I capistazione segnalano, dopo la partenza da Pisa, l'arrivo nel versante calabro della carovana diesel già da due giorni. La motonave Scilla, quella delle Ferrovie dello Stato, classe 1983, sarebbe anche pronta a salpare ma Golfo Aranci, come ai tempi della Isotta Fraschini, ha i binari ma non è pronta per l'utilizzo dell'imbocco ferroviario a mare. L'impresa incaricata del ripristino ci sta lavorando ma servono ancora collaudi e rifiniture. Come se fossimo nel Medioevo ferroviario bisognerà attendere ancora.

Il 7 ottobre l'arrivo

L'attraversata tirrenica dei nuovi treni, da Messina a Golfo Aranci, è schedulata per il sette ottobre prossimo, Scilla e Cariddi consentendo. Facendo i debiti conti sarebbero in tutto nove/dieci i giorni dalla partenza del convoglio da Pisa. Molto più tempo di quanto ci ha impiegato il commendator Johnson a raggiungere Capo Figari da Milano con la sua sedici cavalli.

Inconfessabili interessi

Il disastro, però, ha responsabilità chiare. Scelte politiche, interessi inconfessabili e negligenze diffuse. Con tanto di ordinanza il Capo del Circondario marittimo del Porto di Golfo Aranci a maggio scorso, 116 anni dopo lo sbarco dell'Isotta, ha dovuto interdire la prima Invasatura ex RFI, Rete Ferroviaria Italiana, per la vetustà delle banchine dei respingenti in legno, di cavi colonnine e l'assoluto pericolo per i fruitori dell'area. Difficile non leggere in questo totale abbandono una strategia di disimpegno da parte di chi avrebbe dovuto salvaguardare un accesso ferroviario verso la Sardegna. In questa terra circondata dal mare la pluralità dei mezzi di accesso e di movimento, tecnicamente intermodalità, sarebbe dovuta essere una precondizione fondamentale dello sviluppo. E, invece, alle soglie del terzo decennio nel secondo millennio, in quest'Isola è persino impedito l'arrivo di un carico su ruote di ferro, unico caso in Europa. E' facile per lo Stato e per le società satellite argomentare che non c'è traffico ferroviario, del resto verrebbe da domandarsi come avrebbe potuto esserci se non esiste un solo approdo per binari su 1897 km di coste. Arriveranno, prima o poi, gli «Swing». Non sarà un viaggio, ma un'epica odissea.

Le carrozze sparite

Ne arriveranno solo quattro, mentre in tutte le altre regioni sono, stranamente, da tempo in funzione. Un contratto di servizio con la Regione sarda che, di fatto, per le Ferrovie dello Stato vale decisamente meno di quanto succede altrove. Intanto l'Hitachi Rail Italy ha vinto la gara per i nuovi treni ibridi. Un miliardo e seicento milioni di euro di vagoni e locomotive, per l'esattezza 135 treni. In Sardegna, forse, ma non si sa quando, ne dovrebbero arrivare 11. Il contratto tra le Ferrovie dello Stato e i nipponici di Reggio Calabria, dove saranno realizzati i treni, prevedeva 48 mesi per la fornitura.

Ritardi e sospensioni

Il contratto di servizio con la Regione sarda è stato sottoscritto nel 2017. Di mesi da quella firma ne sono già passati 38. Di quei treni nemmeno l'ombra. Eppure i giudici del Tar hanno dato ragione alla Hitachi e alle Ferrovie dello Stato, contro un'altra società ferroviaria, proprio in virtù dell'urgenza di fornire i treni anche alla Sardegna. In realtà non hanno nessuna fretta, e si capisce. Manca l'approdo a mare e le strade ferrate a terra languono. E ogni giorno se ne scopre una. Alla vigilia dell'estate appena trascorsa, era il 24 giugno, nel silenzio della pestilenza, il Provveditorato interregionale per le opere pubbliche ha sentenziato: il procedimento autorizzativo della conferenza di servizi per la velocizzazione della rete ferroviaria è sospeso. Tra le righe si legge, se fossimo andati avanti la valutazione non sarebbe stata positiva. La Sardegna può attendere.

Mauro Pili
© Riproduzione riservata