«Abbiamo le mani che sanguinano e le piaghe sul viso, ma non ci fermiamo». Un altro turno infinito sta per iniziare nel reparto Malattie Infettive del Santissima Trinità di Cagliari. Laura (il nome è di fantasia per non incorrere nelle sanzioni disciplinari) fa l'infermiera da più di vent'anni e si prepara all'ennesima serata in trincea. «Se le persone vedessero quel che vediamo noi starebbero a casa».

Ha paura?

«Prima no, ma ora inizio ad averne».

Quanto durano i turni?

«Minimo dodici ore».

Quanto guadagna?

«Tra i 1.500 e i 1.600 euro al mese».

Da quanto lavora agli Infettivi?

«Vent'anni».

Ha mai visto una situazione simile?

«Ho lavorato in altri reparti prima, ma una realtà così apocalittica non c'è stata neppure ai tempi dell'Hiv».

Quali protezioni usate?

«Ne usiamo sempre meno, questo è il punto critico. Avevamo scorte grazie all'emergenza ebola di qualche anno fa, ma alcuni materiali sono in scadenza».

Fate economia?

«Si, stiamo finendo tutto. Prima avevamo cappucci e cuffie integrali che coprivano anche il collo. Ora non più. Quello che possiamo fare usciti da una stanza e inondarci di varechina».

Quanti siete per turno?

«Dipende. Lavoriamo fianco a fianco con i colleghi di Rianimazione e anche loro devono usare le protezioni adeguate, a volte per assistere un paziente dobbiamo essere in nove: ne va della vita».

Quanto impiega a vestirsi?

«Io che sono formata cinque minuti».

Qual è la procedura?

«Nel primo spogliatoio lascio i miei indumenti, infilo la prima divisa e gli zoccoli di spostamento. A questo proposito vorrei dire una cosa».

Prego.

«Non abbiamo divise di scorta, non stiamo ricevendo il carico dalla lavanderia e così quando arriviamo non sappiamo se avremo una divisa o no. Detto questo, la vestizione procede».

Come?

«Nella zona gialla ci ricambiamo: guanti, doppi guanti, cuffia quando c'è e la tuta che ormai tutti siete abituati a vedere, mascherina e occhiali».

All'uscita?

«Quando finiamo con un paziente ci svestiamo e se abbiamo il dubbio di esserci contaminati irroriamo la pelle con la varechina».

Le mani sanguinano?

«Sì e abbiamo anche le piaghe in faccia per gli occhiali».

Cosa succede se dovete andare in bagno?

«Evitiamo. Beviamo pochissimo, dentro la tuta si suda parecchio e quindi la pipì viene prodotta meno, e poi la teniamo. Se ti scappa rischi di deconcentrarti e non ce lo possiamo permettere».

Quante pause per turno?

«Poche, è difficile fermarsi anche per mangiare. Vorrei ringraziare i ristoratori che ci mandano la cena: per noi è vita».

Cosa consiglia ai colleghi più giovani?

«Di non farsi vincere dalla paura e non avere fretta perché fa commettere errori».

I malati cosa dicono?

«Ci adorano».

Hanno paura?

«Sì, hanno bisogno di rassicurazioni e noi gliele diamo pur nell'incertezza di quel che accadrà. Cerchiamo di essere credibili, ma qualcuno ci legge la verità negli occhi».

Sentono la mancanza dei parenti?

«Sì, avere un contatto li aiuterebbe ma non è possibile, per ora hanno solo noi».

Cosa vi chiedono i familiari?

«Ci telefonano, vogliono sapere come stanno i loro cari, se sono spaventati e vogliono rassicurarli che loro a casa stanno bene».

Lettere o foto?

«Questo no, non mi è capitato».

Messaggi da comunicare?

«Una donna mi ha chiesto di far sapere una cosa al marito, ho riscritto quelle righe mille volte per paura di sbagliare».

Il momento più duro?

«Quando è morto Carlo, il paziente 1. Purtroppo ero lì quando se n'è andato e c'ero anche al suo arrivo. Abbiamo parlato, l'ho visto vigile e orientato, mi ha raccontato del suo bimbo, di sua moglie. Ha lottato fino alla fine».

Com'è cambiata la sua vita?

«Leggo la preoccupazione negli occhi dei miei familiari. Anche in casa dobbiamo tenere le distanze».

Come?

«Niente più baci e abbracci, mi si stringe il cuore ma non possiamo rischiare».

Ha fatto il tampone?

«Sì, è negativo».

Cosa dice a chi non rispetta le restrizioni?

«Quando rientro dopo un turno di lavoro e li vedo correre e passeggiare, l'istinto sarebbe di abbassare il finestrino e dirgliene quattro».

Invece?

«Non si può, ma se vedessero quel che vediamo noi capirebbero che questo non è un gioco».

Mariella Careddu

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