Nell'ultimo mezzo secolo le regole di governo delle economie industrializzate si sono basate su una relazione macroeconomica nota come curva di Phillips, dal nome dell'economista che la propose nel 1958. William Phillips aveva osservato l'esistenza di una relazione empirica inversa tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione: quando il primo era elevato, la disoccupazione era modesta e viceversa. L'osservazione venne confermata da successivi studi di economisti come Paul Samuelson e Robert Solow, futuri premi Nobel, che la proposero come un'esplicita relazione teorica su cui basare la condotta della politica economica dei Paesi sviluppati. Secondo questa teoria, al governo incombeva la responsabilità della politica fiscale, che per ridurre la disoccupazione doveva adottare politiche espansive, che a loro volta facevano crescere l'inflazione.

Alla Banca centrale, considerata indipendente dal governo, incombeva invece il ruolo di controllore dell'inflazione, per cui, quando questa saliva oltre il livello giudicato tollerabile, poneva in atto politiche monetarie restrittive, facendo salire i tassi d'interesse che regolavano l'erogazione del credito e, di conseguenza, raffreddando la domanda aggregata che in ultima analisi faceva nuovamente aumentare il tasso di disoccupazione. Questo schema di specializzazione, basato sul controllo reciproco del governo sulla Banca centrale con la politica fiscale e, viceversa, della Banca centrale sul governo attraverso la politica monetaria, è durato in Europa e negli Stati Uniti sino allo scoppio della crisi finanziaria del 2007-2009.

Dopodiché esso è saltato definitivamente in entrambe le sponde dell'Atlantico.

Cosa è successo?

È successo che le politiche monetarie espansive promosse dalle Banche centrali dei vari Paesi industrializzati (Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione monetaria europea) per contrastare la crisi finanziaria hanno raggiunto il loro culmine con il cosiddetto quantitative easing (Qe), cioè con un'espansione monetaria mai vista prima dei bilanci delle stesse Banche centrali, attuata con l'acquisto diretto di titoli pubblici e privati. Di conseguenza, i bilanci di queste Banche si sono espansi sino a rappresentare oggi il 35% del Pil dei Paesi interessati, come ha fatto notare un articolo dell'Economist della settimana scorsa.

Come corollario di questa politica, secondo l'Economist, i tassi di interesse in tutto il mondo sono crollati su livelli prossimi allo zero e i tassi di rendimento di un quarto dei titoli emessi, pari a circa 15 mila miliardi di dollari, sono diventati negativi, il che significa che i possessori di tali titoli pagano i debitori-emittenti per detenerli. Perché lo fanno? La risposta è data dall'incertezza: si preferisce pagare, per avere la garanzia di possedere titoli sicuri che alla scadenza saranno rimborsati. Quei titoli sui quali incombe un rischio più o meno elevato di non essere rimborsati, sospetto che purtroppo lambisce anche i titoli italiani, continuano invece a pagare interessi positivi, che si configurano come puro premio per il rischio d'insolvenza.

A fronte di un Qe diventato permanente e a dispetto dell'enorme liquidità immessa sui mercati dalle Banche centrali, l'inflazione nei Paesi sviluppati ristagna intorno all'1%. Ciò rende inapplicabile la vecchia relazione di Phillips, perché a bassi livelli di disoccupazione non corrispondono più alti livelli d'inflazione. Negli Usa, ad esempio, il tasso di disoccupazione è sceso al 3,5%, livello minimo dal 1969, ma l'inflazione è solo all'1,4%. Analogamente in Europa, a un tasso di disoccupazione dell'8,7%, tra i più bassi dell'ultimo periodo, corrisponde un'inflazione che non va oltre l'1%. Perciò, in un mondo in cui il vecchio paradigma della curva di Phillips non vale più, sono gli stessi governatori delle Banche centrali (Powell per le Fed e Draghi per la Bce) a suggerire ai governi (Usa, Germania, Olanda) di fare politiche fiscali espansive, per far crescere non solo il reddito, ma anche l'inflazione.

Beniamino Moro

(Università di Cagliari)
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