"Voglio che lo sappiano tutti. Lo devono sapere che dopo dieci mesi che l'uomo ha ucciso mio fratello è già fuori. Questa non è giustizia. Se è uscito lui dal carcere dovrebbero uscire tutti".

Roberto Picci ha gli stessi occhi del fratello Sandro, morto ammazzato il 9 ottobre di un anno fa. Occhi piccoli e scuri, segnati da un tormento che non gli dà pace.

LA PERIZIA - Sono trascorsi 300 giorni dal pomeriggio in cui Alessandro Picci, 46 anni, è crollato sull'asfalto davanti ai palazzoni di mattoni rossi in via Pertusola.

Cercava di sedare una rissa quando è stato centrato in pieno viso da un colpo di pistola esploso con una calibro 7.65 da Martin Aru, venticinquenne irrequieto molto conosciuto nelle strade del quartiere.

La condizione psico-fisica del giovane assassino - reo confesso - è incompatibile con il regime carcerario.

Lo ha scritto il medico nella perizia richiesta dal giudice su sollecitazione dei difensori Marco Fausto Piras e Francesco Marongiu.

E così venerdì sera gli agenti del penitenziario hanno stretto un braccialetto elettronico al polso del venticinquenne e le porte del carcere di Uta si sono spalancate per lasciar passare l'auto civetta che lo ha accompagnato in una clinica segreta dove aspetterà agli arresti domiciliari che inizi il processo.

Alla sbarra anche il padre Massimiliano Aru che quella sera di ottobre era insieme al figlio ed è accusato di concorso in omicidio.

L'APPELLO - "Quando il nostro avvocato ce lo ha detto non volevamo crederci. È chiaro che non è giusto. C'è gente che ci muore in carcere e invece questo qua è già uscito. Io parlo a nome della mia famiglia che è sconvolta da questa decisione. Che almeno prima gli facciano il processo".

Roberto Picci porta un lutto senza lacrime.

Seduto in punta a una seggiolina di plastica sul marciapiede alle spalle del mercato di Sant'Elia è avaro di parole, ha troppi pensieri e troppi brutti ricordi che vorrebbe dimenticare.

"Che poi io non ci credo che questo ha cercato di ammazzarsi e che sta male. Ché se uno si vuole impiccare si impicca".

Nove giorni dopo il delitto, Martin Aru pendeva dalle sbarre della sua cella con un lenzuolo stretto intorno al collo.

Lo hanno salvato e trasferito in ospedale prima di riportarlo in carcere.

"Dicono che sia dimagrito venti chili, ma cosa importa? Vorrei che il medico che ha firmato quel certificato leggesse le carte del fascicolo per capire se è un uomo pentito oppure no".

Il giorno dell'omicidio Martin Aru si è rifugiato nello studio dell'avvocato prima di consegnarsi a carabinieri e polizia.

Fin da subito aveva detto di aver ucciso per errore, perché durante la rissa - alla quale si era presentato con una pistola e accompagnato dal padre Massimiliano che invece stringeva una verga - qualcuno aveva fatto un gesto improvviso che lo aveva spinto a sparare.

Perché Sandro Picci per lui non era uno sconosciuto ma un amico di famiglia che aveva raccolto persino i soldi per pagare il funerale di sua nonna.

IL DELITTO - "Quando mi hanno chiamato per dirmi quello che era successo non ho fatto in tempo ad arrivare in ospedale che Sandro era già morto. Ha lasciato una moglie e quattro bambini. Gli volevano bene tutti e Martin non si è pentito per niente di quello che ha fatto. Che comunque noi scuse non ne vogliamo. Vogliamo solo giustizia e che paghi per quello che ha fatto".

Marco Lisu, avvocato della famiglia Picci, rinvia al processo qualunque commento ma spiega: "Noi ci opporremo perché si tratta di un soggetto pericoloso"

Mariella Careddu

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