È una voce lucida e ferma che rompe il silenzio quella di Antonella Pala, sorella di Emanuela, la giornalista sarda, collaboratrice di La7, trattenuta in Israele dopo l’intercettazione nelle acque internazionali della Global Sumud Flotilla, l’imbarcazione civile diretta a Gaza con a bordo aiuti umanitari e attivisti internazionali.

Dalla sera dell’abbordaggio da parte della Marina israeliana, Emanuela non ha più potuto comunicare con la famiglia. I contatti si sono interrotti tra interferenze, linee oscurate e notizie frammentarie. Solo gli aggiornamenti ricevuti tramite gli avvocati e la Farnesina hanno permesso ai familiari di sapere che si trova nel carcere di Ketziot, nel deserto, insieme ad altri attivisti.

Quando ha sentito per l’ultima volta sua sorella Emanuela?

L’ultima volta l’ho sentita poco prima dell’assalto. Riuscivamo a malapena a comunicare: la linea era disturbata, i messaggi brevi. Mi ha scritto dicendomi che li stavano arrestando, che dovevamo sentire gli avvocati e la Farnesina. Mi aveva lasciato dei contatti, delle indicazioni. Ho provato a chiederle come stava e lei mi ha risposto subito: “Sto bene, stai tranquilla. Sappiamo tutti a cosa andiamo incontro. Ci arrestano di sicuro. Sono qui, non posso stare al telefono”.

E poi?

Sempre via messaggio mi ha scritto anche che avevano fatto dei training, quindi sapevano in teoria cosa aspettarsi. Ma appunto: in teoria. Perché sapere che potrebbero arrestarti non è la stessa cosa che trovarsi in ginocchio, con le mani alzate, e vedersi puntare addosso gli idranti. Quello non lo puoi prevedere davvero.

A quando risalgono questi messaggi?

L’ultimo alle 20:30 di mercoledì sera, il giorno dell’arresto. Poi più nulla. Per ore ho pensato che li avessero arrestati immediatamente, ma ho saputo poi che stavano disturbando le linee: niente internet, interferenze radio per isolare le barche tra loro. Lì ho capito che il blackout non era solo comunicativo, ma anche voluto.

Da quel momento, nessuna notizia diretta?

No, solo notizie riportate dagli avvocati, attraverso la Farnesina. Mi hanno detto che all’inizio risultavano tutti in buone condizioni fisiche e che non avevano firmato il foglio di via, motivo per cui erano stati arrestati. Poi sono stati trasferiti in un carcere nel deserto.

Quali sono le ultime informazioni che avete?

Le ultime notizie sono molto più gravi: alcuni di loro sono stati interrogati senza la presenza dell’avvocato. Gli avvocati hanno atteso anche nove ore fuori. È inaccettabile, una violazione palese del diritto. Su circa 300 persone, solo una parte ha potuto accedere all’assistenza legale. Non so se Emanuela sia stata tra queste, ma so che è stata tra le prime ad essere catturate. La sua imbarcazione, la “Grande Blu”, è stata la prima a essere abbordata.

Quando ha visto sua sorella l’ultima volta?

Poco prima della partenza. Emanuela era con noi, in Sardegna. È lì che ha deciso di partire e ce lo ha detto chiaramente. Tutta la famiglia era con lei. Sì, la paura c’era, sarebbe disumano dire il contrario. Ma eravamo e siamo orgogliosi. Noi abbiamo abbracciato questa sua scelta fin dal primo momento. Le abbiamo dato tutto il supporto possibile, aiutandola anche nei preparativi.

Come sta passando queste ore?

In realtà non dormo da quando è partita. Ma questa è una cosa mia. Emanuela, invece, ha sempre avuto le idee chiare: voleva esserci, voleva aiutare, voleva raccontare.

Che cosa le dirà, quando finalmente potrà riabbracciarla?

Solo una cosa. La più semplice ma la più vera: “Ti voglio bene”.

Rimprovera qualcosa al governo italiano?

L'indifferenza. L’abbandono. Il non aver tutelato i propri cittadini. Si continua a dire che si potevano portare aiuti umanitari “in due ore”, ma per due anni e mezzo non lo hanno fatto. Ridurre questa missione a propaganda è semplicemente vergognoso. La Flottiglia era composta da civili. Sulla sua nave, Emanuela era con madri di famiglia brasiliane, malesi, svizzere, svedesi. E il nostro governo cosa fa? La lascia lì, insieme agli altri attivisti italiani e permette a Israele di rapire — sì, per me è un rapimento — i suoi cittadini in acque internazionali. Non ha fatto nulla per difenderli.

Sua sorella non era solo una passeggera: era lì come giornalista. Cosa la spinge davvero?

Emanuela è sempre stata animata da una vocazione profonda: testimoniare. Lei è andata lì per aiutare i colleghi palestinesi, per portare la sua voce e dire: noi siamo con voi. Voleva che il mondo sapesse cosa succede. E lo ha fatto come professionista, come donna, come essere umano. Definirla una terrorista, come ha fatto un ministro israeliano, è meschino. Vederli in ginocchio al porto, umiliati, accusati di legami con Hamas, è una barbarie. Nessuna persona può crederci e ancor meno giustificarlo.

Nelle ultime ore sono circolate dichiarazioni che mettono in dubbio l’esistenza stessa degli aiuti umanitari a bordo. Cosa risponde?

Che stanno mentendo. Al 100%. I beni c’erano. Sono stati raccolti dalla gente comune, da cittadini italiani, spagnoli, turchi. Andavano nei supermercati, in farmacia e portavano quello che potevano. Non erano organizzazioni miliardarie. Era la solidarietà dal basso, quella vera. Emanuela ci ha mostrato i video: le provviste c’erano, le medicine pure. Addirittura i passeggeri non toccavano nulla di ciò che era destinato alla popolazione palestinese. Sono stati i turchi ad aiutarli con del cibo, proprio per questo. Ora parlano di affondare le barche con tutto il carico e allora si inventano che non ci fosse niente. È un insulto all’intelligenza. Una vergogna.

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