Beniamino Caravita di Toritto armeggia con le leggi come Anatoly Karpov sfidava la scacchiera alla ricerca indefessa della mossa finale. Uomo di legge, professore di diritto costituzionale, commissario straordinario della defunta Tirrenia di Stato, non se l'è proprio sentita di passare alla storia come l'allocco che si è fatto fregare sotto il naso la bellezza di 180 milioni di euro dello Stato. Quando tutti pensavano che lo scacchiere navale sarebbe rimasto fermo sino alla partita finale, fissata per il prossimo dicembre con il voto dei creditori sulla proposta di concordato per salvare la Cin- Tirrenia e la Moby, i commissari di Stato hanno scelto di calare la mossa più spietata, quella della bancarotta. La evocano senza mezze misure, con una diffida che va ben oltre una dichiarazione di guerra. Le diciannove pagine recapitate ad amministratori e revisori di Cin-Tirrenia, Moby e "Onorato Partecipazioni" non sono un missile terra-aria, semmai un bombardamento a grappolo, senza lasciare niente di intentato per recuperare quei 180 milioni di euro che Onorato si è "dimenticato" di pagare allo Stato per l'acquisto di Tirrenia.

Volano siluri

Non volano stracci tra il patron di Mascalzone Latino, Vincenzo Onorato e i tre commissari di Stato, Beniamino Caravita di Toritto, Gerardo Longobardi e Stefano Ambrosini. Volano siluri. L'attacco frontale, senza tregua, arriva in piena estate con navi in panne, traghetti costretti a perquisizioni senza tregua, con reati perseguiti tra i più gravi, come l'attentato alla sicurezza della navigazione. Il documento-diffida affidato a Edgardo Ricciardiello e Alessandro Moriconi, legali incaricati dai commissari di Stato, va ben oltre quello che si son detti sinora i contendenti. Le parole sono forti come macigni e irrompono nello scenario fallimentare con l'irruenza della resa dei conti finale. Parole tanto centellinate quanto spietate, in grado di mettere per la prima volta, nero su bianco, accuse destinate a lasciare il segno.

J'accuse

Il j'accuse è intriso di prove e numeri, con una ricostruzione dei fatti in grado di scardinare la più intrigante sceneggiatura di un thriller finanziario d'alto bordo. Nella nuvola delle parole più dure usate nel documento emergono veri e propri capi d'accusa:«operazioni illecite», «frode dei creditori», «bancarotta», «spregio delle regole», «condotte distrattive», «esercizio abusivo». Non parlano ignorando il significato delle parole, circoscrivono, piuttosto, dettagli e tempi, azioni e aggravanti. Una missiva che riapre pesantemente i giochi in pieno agosto, quando le aule di tribunale sembravano destinate a restare socchiuse. Invece, no. L'accelerazione è brusca. Il timore di perdere quella montagna di soldi pubblici è sopra soglia.

Dormiveglia

I tre commissari di Stato da settimane non dormono. Da quando hanno letto che il piano di Onorato prevede (forse) la restituzione di appena il 20% di quei 180 milioni, quelli che il patron di Mascalzone Latino deve alle casse pubbliche, si arrabattano in ogni modo per scongiurare quello che appare come una delle più imponenti sottrazioni di denaro pubblico da parte di un privato. Non si danno pace, anche perché, loro, quei soldi li avrebbero potuti intascare già due anni fa, non appena i giudici del Tribunale di Roma avevano sentenziato il sequestro dei conti correnti della compagnia Onorato family. Invece,no. In quell'occasione si fecero piegare dalla politica e dalla minaccia di lavoratori in piazza. Con pressioni di più ministri, pare per iscritto, accettarono di spostare quei sequestri di capitale sulle navi. Ipoteche piuttosto che soldi contanti. Il risultato ora è sotto gli occhi di tutti: rischiano di perdere tutto.

Mossa dell'arrocco

Per questo motivo calano la «mossa dell'arrocco»: l'unica che permette di muovere due pedine contemporaneamente, quella fallimentare e quella penale. Due sono, infatti, i capisaldi della diffida vergata a Bologna, sede dello studio legale, e inviata a casa di decine di amministratori e revisori dei conti della compagnia, tutti chiamati a pagare in solido il «danno». Da una parte invocano «l'immediata revoca del decreto di ammissione alla procedura di concordato» e dall'altra l'esplicita denuncia di «atti distrattivi rilevanti anche sotto il profilo penale dei reati di bancarotta». Botte da orbi, senza mezze misure. A partire da quella richiesta di «revoca del concordato preventivo» che significa dritti dritti verso il fallimento, senza se e senza ma. Con questa missiva al fulmicotone, infatti, la posizione dello Stato è senza appello: la compagnia di Onorato deve fallire. E le argomentazioni vanno ben oltre l'aspetto economico finanziario.

In frode, non casuale

I tre commissari, infatti, spiegano nel dettaglio che l'insolvenza di Onorato & figli non è casuale, ma negli atti compiuti ci sarebbe, secondo quanto scrivono gli avvocati, «il proprio intento frodatorio». In pratica, dall'esame della documentazione amministrativa e contabile della società, emerge come «lo stato di insolvenza di Cin-Tirrenia fosse chiaramente percepibile sin dall'esercizio 2016». Tutto questo, è scritto apertis verbis, «in frode ai creditori». Affermazioni tanto pesanti quanto suffragate da «gravissime condotte imputabili a organi di gestione e controllo della Compagnia italiana di navigazione e della Moby e all'abusiva attività di direzione e coordinamento della Onorato armatori». Ci passano tutti per aver adottato una gestione tutta protesa a «dissimulare il grave stato di insolvenza» pur di non pagare il dovuto allo Stato. Tutto questo con «modalità del tutto illegittime». Una volta sfumato il tentativo della fusione di Moby e Cin, la Onorato family ha provato in ogni modo ad eludere il pagamento del debito con lo Stato «portando a termine l'intento distrattivo del patrimonio di Cin a danno della Tirrenia (quella in amministrazione straordinaria)» mettendo in «essere le operazioni illecite di cui devono ritenersi responsabili in solido tra loro gli amministratori e sindaci».

Il golpe nei bonifici

Il cuore della denuncia dei commissari sono quei tre bonifici che l'Unione Sarda, in esclusiva, aveva pubblicato più di un anno fa con i quali nel mese di dicembre del 2018 «Cin ha versato nelle casse di Moby l'importo di 85 milioni mediante tre ordini di bonifico. Qualificati dall'amministratore delegato di Cin quali "normali operazioni infra-gruppo" senza che gli amministratori, privi di deleghe, e l'organo di controllo interno, rilevassero alcunché di anomalo». Un atto alla base della richiesta immediata della revoca del concordato preventivo in quanto «appare perpetrato a sottrarre risorse ai creditori di Cin». Un'azione che, secondo i commissari di Stato, «denota un disvalore giuridico sotto il profilo del compimento di atti di frode ai sensi dell'art.173 della legge fallimentare». Atti di frode, non mezze parole.

Accuse e cazzotti

Le accuse sono cazzotti in pieno volto: gli uomini di Onorato hanno rinunciato a crediti per 165 milioni a favore di Moby, si sono "dimenticati" di restituire128 milioni di biglietti di Cin incassati da Moby, hanno persino pagato con i soldi di Cin navi che non erano state ancora costruite. La conclusione è disarmante: senza queste condotte illecite, distrattive e illegittime a favore della cassaforte di famiglia Cin-Tirrenia avrebbe avuto un attivo di 234 milioni di euro, invece, segna un meno 8,3 milioni. Onorato ha 4 giorni per sborsare 180 milioni di euro. Prima dello scacco matto.

Mauro Pili

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