Molti proverbi italiani esaltano le virtù della fatica. Si dice, infatti, “A gloria non si va senza fatica” oppure “chi fugge la fatica, fugge la fortuna” e ancora “la fatica è la madre del sapere”. Eppure, gli esseri umani, come è naturale, appena possono rifuggono la stanchezza, l’affanno. Cercano soluzioni per alleggerire il peso che devono portare, magari ricorrendo alla tecnologia. Per poi magari scoprire che immersi nei loro device avveniristici faticano ancora di più a star dietro ai ritmi dello stress.

Partendo da considerazioni come questa lo storico e sociologo Georges Vigarello nel suo Storia della fatica (il Saggiatore, 2024, euro 35,00, pp. 528) ci conduce in un’esplorazione della stanchezza attraverso le epoche e le culture. Ci offre, infatti, una narrazione in cui si incrociano i cambiamenti delle nostre strutture socio-lavorative e quelli riguardanti i corpi e l’autopercezione, l’impatto della guerra e la nascita ed evoluzione dell’attività sportiva.

Si parte con la fatica medievale, in cui distinguere la nobile fatica del guerriero e del pellegrino da quella “ignobile” del lavoratore medievale chino a vangare la terra del contadino”. Sintomi evidenti della fatica erano la disidratazione, la perdita di umori e liquidi. Come intervenire? Bibite dalle strambe ricette per reidratarsi, talismani e spezie. Poi Vigarello passa all’età moderna: la fatica venne inserita in categorie. Burocratizzata come era burocratizzato lo Stato moderno, fatto di funzionari e amministratori. In questa cornice dove tutto venne categorizzato e gerarchizzato la fatica dell’esattore delle tasse valeva di più di quella di un galeotto. Furono gli anni in cui si cominciarono a temere gli effetti della fatica sul corpo, una fatica che deformava, che faceva invecchiare precocemente. Furono gli anni in cui si cominciò a parlare di allenamento alla fatica e si fece ricorso ad essenze e tonificanti come tabacco e caffè.

Nell’universo illuminista del Settecento si vigilava razionalmente sulla fatica. A mostrare ai contemporanei la fatica erano non più gli umori, la disidratazione, ma la risposta nervosa. La stanchezza divenne il frutto di una eccitazione dei nervi mal-gestita, la debolezza era dovuta a tensioni continue che sfibravano fino a portare all’isteria. Per risolvere il tutto si ricorreva a tonici di ogni tipo e a temprarsi con pratiche di resistenza come esporsi al freddo dell’inverno più rigido.

L’epoca industriale fu l’età della fatica per produrre di più, per conseguire un obbiettivo. La logica che si impose fu quella del rendimento a cui non si poteva venire meno. In quei tempi ottocenteschi si riteneva che l’essere umano fosse nato con un fuoco dentro, un’energia che la fatica assottigliava. Si ricorreva allora ai ricostituenti, offerti dalle innovazioni della chimica, e alle droghe, ma si cominciò anche a considerare l’importanza dell’alimentazione per ridurre la stanchezza

Infine, l’epoca attuale, quella della dipendenza dal lavoro, del burnout, della fatica mentale che sostituisce spesso la fatica fisica. È l’età, la nostra, del ricorso alle terapie psicologiche, alla meditazione e all’ascolto di sé per alleviare stress, disagi psicosomatici e burnout.

Alternando testimonianze scritte ad altri documenti d'archivio, La storia della fatica approfondisce i molti modi in cui sono cambiati i simboli e i sintomi della stanchezza di secolo in secolo, arrivando fino ai giorni nostri, a uno sfinimento che si è moltiplicato in modo incontenibile, spostandosi dal corpo alla mente e dalla vita lavorativa a quella domestico-familiare. Ciò che sembra suggerirci Georges Vigarello è che solo collocando ciò che succede oggi in un processo di trasformazioni storiche saremo in grado di comprenderci meglio e di arrivare al punto in cui la fatica sia sì una costante con cui convivere, ma soprattutto qualcosa che è possibile gestire e controllare.

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