Tra venti di guerra e immagini raccapriccianti di stragi di civili inermi oggi la Siria è al centro dell’attenzione mediatica. Purtroppo, però, il dramma siriano non è cosa di oggi e non è neppure legato unicamente alla guerra civile che sta devastando da quasi un decennio il Paese. È, infatti, il frutto avvelenato di più di mezzo secolo di dominio autoritario e spietato, un dominio personificato dalla dinastia Assad che ha in un certo senso annullato lo slancio vitale di generazioni di siriani.

Khaled Khalifa, nativo di Aleppo e oggi considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura araba contemporanea, è da tempo uno dei più acuti cantori della progressiva discesa agli inferi della sua patria e dei suoi abitanti. Ne ha raccontato in quello che finora è stato il suo romanzo più famoso, L’elogio dell’odio (2014), incentrato sulla Siria degli anni Ottanta.

Un Paese dove il regime di Hafez al-Assad reprimeva ferocemente i tentativi di insurrezione e le famiglie siriane, famiglie normali, con i loro amori, speranze e tradimenti, si ritrovavano strette tra il fondamentalismo religioso e un regime poliziesco e corrotto. Continua a farlo nel recente Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città (Bompiani, 2018, Euro 18,00 pp. 288. Anche Ebook) saga familiare che ripercorre la recente storia siriana a partire da una data fatidica, l’8 marzo 1963.

In quel giorno un colpo di stato porta al potere il partito Baath, anticamera del regime della famiglia Assad. E in quel giorno nasce anche il protagonista e narratore del romanzo, personaggio la cui vita si sviluppa quasi in parallelo e si rispecchia nella progressiva perdita di vitalità e libertà della società siriana. Si ritrova così a vivere in una società dove il confine tra pubblico e privato non esiste più, dove ogni parola deve essere misurata fino allo spasimo perché il minimo errore più mettere a repentaglio la propria vita.

Vive un’epoca tragica in cui, come scrive Khalifa «se dici che il basilico è caro questo significa per gli informatori che ti lamenti della politica del partito e se dici che pensi alla morte, significa che non ti piace vivere sotto la pressione dell’autorità del partito». Sopravvivere diventa quindi possibile solo per chi viene a patti con il partito, cedendo una parte importante della propria consapevolezza e umanità, e neppure la religione può essere di conforto perché trasformata in un’arma per annientare i nemici.

Queste tragiche consapevolezze, che Khalifa fa emergere con magistrale capacità narrativa, descrivono compiutamente il dramma di una nazione e di un popolo che si stanno lentamente spegnendo nell’interessata ed egoistica indifferenza del resto del mondo. Un dramma raccontato dall’autore con forza evocativa, crudele realismo e, soprattutto, con l’intima e feroce convinzione che si debba continuare denunciare quello che avviene non lontano dalla nostra Europa e che non si possano mai far cadere nell’indifferenza le riflessioni del protagonista quando afferma: “Niente desideri, né sogni, nessun futuro né passato: questo era diventato per me un dogma di fede, che mi avrebbe assicurato la felicità. Mi convinsi che vivere nel presente era l’unica salvezza per le persone come me, che erano senza speranze”. Ma senza speranze l’esistenza diventa solo un pallido simulacro della vita, niente di più.

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