“Papà? Papà, aiutami, vorrei dire, ma il dolore mi ha tagliato la lingua dalla bocca”. Emma non riesce a riprendersi, dopo la festa di sabato sera: “Non avrei dovuto bere in quel modo. Perché mi sono scottata? E poi è stato stupido accettare quella pasticca da Paul, perché l’ho fatto? Ma perché non riesco a ricordare niente?”. Emma si sente come in un sogno, non riesce a distinguere i ricordi dalla realtà. Rammenta le voci, le risate e delle mani che la afferravano e la spingevano nel feltro nero della notte. Ali, Maggie e Jamie, le sue migliori amiche, non le rispondono al telefono e quando torna a scuola, niente è più lo stesso. Quando si muove nel corridoio, gli altri urtano la sua spalla, nessuno vuole sedersi accanto a lei, non si sentono altro che bisbigli: “Ridono di me. Tutte ridono di me. E io mi alzo e corro, corro, corro; corro via da tutte loro, dalle chiacchiere e dalle risate e dal rumore […] cerco di ricordare. Non riesco a ricordare, non riesco a ricordare”. Emma era popolare nella sua scuola, le coetanee la invidiavano per la sua bellezza.

Sean e Dylan, dopo quella sera, hanno detto in giro delle cose non vere su di lei su Snapchat, che Emma non ricorda: “Trefoli di ghiaccio sugli occhi. Che mi sfrigolano dentro. Mani che mi spingono le ossa al centro del corpo, come per cercare di rimpicciolirmi. Ragazzi, non so se sia una buona idea. Risate, uno spruzzo umido sulla pelle”.

Emma apre Facebook: 630 notifiche con delle foto che la taggano, una pagina che non è stata creata da lei, ma che riporta il suo nome e la sua immagine profilo: “Clicco sulle foto. Membra pallide, capelli lunghi, testa rovesciata all’indietro sul cuscino. Le foto  cominciano dalla testa, scendono lungo il corpo, indugiano sulla carne nuda […] Non sono io. Dylan sopra quella ragazza (io, io, non posso essere io, non sono io) le mani sulla (mia…no sua) faccia, come a nasconderla. Non c’è faccia. Solo un corpo, una bambola a grandezza naturale con cui giocare. Lei è una cosa. Un oggetto (Io, io, io, io, io)”. Emma capisce che l’hanno fotografata, mentre era nuda e inconsapevole; stordita dall’alcol, mentre tutti intorno la toccavano, si muovevano intorno, compivano gesti spregevoli. Emma si sente sola, vorrebbe chiedere aiuto alla madre, ma tace, perché pensa di esserselo meritato: “Mi lavo le mani, mi sapono e ri-insapono le dita, guardo la pelle rossa scomparire dietro la schiuma, mi lavo e mi lavo e mi lavo”.

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Le persone intorno dicono che è una sgualdrina e che se l’è cercata, d’altronde era ubriaca e aveva preso pure qualche pasticca, anche se nelle immagini appare immobile e incosciente. Una professoressa trova quelle foto e la induce a denunciare, parla di possibile stupro, ma Emma non vuole sentire quella parola. Si vergogna, non vuole dare una simile delusione ai suoi genitori. Si sente in colpa, non esce più di casa: “So che sarà impossibile fermare tutto questo. Ormai non posso più fermarlo. Il tremendo dolore di questa consapevolezza mi piega in due […] un dolore senza fondo. Un buco nero. In cui cado, cado, cado”.

“Te la sei cercata” è un libro di O’Neill Louise, edito da Hot Spot.

In questo romanzo, la drammatica esperienza di un’adolescente come tante, che eccede in una serata d’estate e che si ritrova vittima inconsapevole di un abuso. Come accade alla protagonista, la vittima non riesce a definire ciò che è accaduto, per la vergogna e per il senso di colpa di non essere riuscita a reagire. Questo porta ad assumere una visione distorta di sé, che sfocia nella depressione e nell’isolamento; nonché ad avere difficoltà a denunciare il fatto. È un libro che può essere usato come strumento di prevenzione e sensibilizzazione, perché come esorta l’autrice: “Dobbiamo parlare dello stupro. Dobbiamo parlare del consenso. Dobbiamo parlare del senso di colpa che imputiamo alle vittime […] dobbiamo parlarne e parlarne e ancora parlarne finché tutte le Emma di questo mondo si sentiranno sostenute e comprese. Finché si sentiranno credute”.   

  

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