Settembre 1939. Una nuova guerra incombe oramai sull’Europa. Aldo, ventenne fiorentino, giunge a San Domino, l’isola delle Tremiti scelta dal regime fascista come confino per chi era accusato di omosessualità. I cosiddetti “femminielli” alloggiano in due baracche fatiscenti. Sono perlopiù siciliani, perché arrestati per un omicidio avvenuto anni prima a Catania e tuttora impunito, che continua a perseguitarli. Ci sono la Fisichella, dallo sguardo sornione, sempre in urto con il mondo, la Picciridda, appena diciottenne, che ama travestirsi da donna, la Leonessa, afflitto da attacchi epilettici e con strani segni sul corpo; e poi la Sticchina, il Professore, il Dottore, la Peppinella, vittime come Aldo di pregiudizio e intolleranza. Al confino la vita è dura, tra disprezzo degli abitanti dell’isola, incontri clandestini nei boschi e la conta dei carabinieri, esiliati anche loro e non disdegnosi di trovare conforto tra i femminielli.

Il confino però può diventare anche una palestra di vita, un percorso di crescita personale e civile e, nonostante le intenzioni del regime, dalla segregazione nascerà una comunità di uomini paradossalmente liberi e solidali. Uomini che nel giro di pochi mesi saranno rilasciati e in parte arruolati per essere mandati al fronte, incontro al proprio destino.

A cinque anni dal toccante esordio con il romanzo Per chi è la notte (Fazi Editore, 2019), Aldo Simeone con L’isola dei femminielli (Fazi Editore, 2024, pp. 284, anche e-book) rievoca un pezzo dimenticato della storia italiana intessendo un racconto di rara sensibilità sui rapporti umani e sul confine, spesso sottile, che separa prigionia e libertà.

Ad Aldo Simeone chiediamo come è nata l’idea di un romanzo dedicato al confino degli omossessuali sotto il regime fascista:

«Era il 2013. Scoprii la vicenda di San Domino in un articolo di Focus Storia basato sul saggio La città e l’isola di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, tutt’oggi lo studio più organico sulla repressione antiomosessuale compiuta dal fascismo. Ricordo il montaggio fotografico che occupava la prima doppia pagina: un falso, ma allora non lo sapevo. Due uomini danzano abbracciati in primo piano; sullo sfondo il villaggio di San Nicola negli anni Trenta. Le due foto appartengono a epoche diverse; San Domino s’intravede appena sullo sfondo. Eppure, dimostrano che anche una ‘falsificazione’ può dire la verità. Ci sono voluti undici anni perché quella prima accensione d’interesse si trasformasse in un romanzo: anni di documentazione libresca nella pur ristretta bibliografia sul tema. E tuttavia, non riuscivo a vedere la storia nella Storia. Il clic è arrivato ancora grazie ad altre fotografie: il reportage L’isola degli arrusi di Luana Rigolli. Da quel primo montaggio contraffatto alle foto segnaletiche dei veri confinati».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Come è stato "mettere in romanzo" una storia vera?

«Un ginepraio. All’inizio mi dicevo: che vuoi che sia? Posso inventare! Eppure, avevo le mani legate. Disponendo di tanti documenti di realtà, anche minuti (per dire: il calendario di tutte le liti avvenute nei cameroni), ogni mia intrusione per colmare le lacune e cavare una struttura ‘romanzesca’ dai dati storici mi sembrava irrispettosa. Ho dovuto letteralmente patteggiare con i personaggi: cavare dai loro silenzi le mie parole».

Che tipo di linguaggio ha scelto per raccontare la sua storia?

«Altro rovello. Poiché il 90% dei confinati di San Domino erano siciliani, il tessuto linguistico del romanzo doveva appartenere a quella terra. Non solo: anche l’immaginario, gli idiotismi, gli automatismi espressivi, la ‘visione del mondo’. Ho risolto la gabola furbescamente: innestando nella mia imitazione di siciliano una voce toscana, a me vicina (sono nato e cresciuto a Pisa). Guarda caso, l’unico testimone di Firenze portava il mio stesso nome: Aldo».

Come vivono i protagonisti del libro il confino? Riescono a trovare un modo per non sentirsi non solo esiliati, ma anche disumanizzati?

«Uno dei pochi confinati raggiunti anni dopo da Goretti e Giartosio confessò: ‘in fondo si stava meglio là che qua’. È una frase da prendere con cautela, perché ‘viziata’ dalla trasfigurazione della memoria di gioventù. Eppure, dai documenti emerge che i femminielli trovarono nella segregazione una paradossale libertà, a loro sconosciuta: di essere sé stessi. Tanto, ormai, cosa dovevano più nascondere?! E poi non dimentichiamo che quei circa 75 omosessuali confinati furono (impressiona dirlo, ma è vero) tra i ‘fortunati’: molto peggio andò agli internati nei manicomi, agli esorcizzati, a chi fu ucciso o si uccise».

A quale dei personaggi è più legato e perché?

«Quando penso a tutti loro, piuttosto che l’immaginazione mi sembra di usare la memoria: di averli incontrati, di averci litigato e fatto pace. Conosco i loro volti, la loro grafia, le loro ascendenze famigliari, perfino i loro oroscopi! Ma fra tutti, per me, si fa spazio Lorenzo Fisichella, che del cognome fece il suo soprannome: ‘La’ Fisichella. Oltre che per questo dettaglio emblematico, il lettore scoprirà nel romanzo perché la sua voce balza fuori dal coro».

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