Quel "murticeddu ogni tanto" di cui parla nel suo ultimo libro doveva essere lui.

Ma i piani dei boss sono andati in fumo perché lui ha sempre denunciato minacce e intimidazioni. E anche una terribile aggressione che ha lasciato pesanti conseguenze.

Paolo Borrometi racconta in "Un morto ogni tanto. La mia battaglia contro la mafia invisibile" (edizioni Solferino, 250 pagine, 16 euro) come l'organizzazione malavitosa abbia stravolto la sua vita: da 4 anni ("questo è il quinto", precisa) vive sotto scorta "per aver scritto articoli pagati 3 euro e 10 centesimi", e ha dovuto lasciare la Sicilia, terra in cui è nato e cresciuto, alla volta di Roma, ritenuta più sicura: niente più libertà, niente più concerti, niente più vita sociale.

"L'ultimo bagno che ho fatto al mare è stato in Sardegna, nel 2013".

Tutto è cominciato con le vicende ricostruite e pubblicate, tra l'altro, su La Spia, il sito che ha creato e in cui riferisce di legami, affari, intrecci tra mafia e mondo dell'imprenditoria, dell'economia e anche delle istituzioni, con nomi e cognomi.

In tanti - amici, parenti e conoscenti - gli dicevano: "Lascia perdere, non immischiarti", ma se è vero che "una penna può ferire più di un'arma", è altrettanto vero che Borrometi, con in testa l'omicidio di Giovanni Spampinato, il corrispondente ucciso dalla mafia a Ragusa nel 1972, non si è fatto intimorire e ha continuato a indagare per ricostruire un puzzle sempre più completo.

A partire dal "viaggio" che fanno i famosi e prelibati pomodori Pachino di Vittoria (solo le organizzazioni criminali si sono chieste come sfruttarli al meglio ma non sulle tavole, ovviamente) alle nuove frontiere delle estorsioni, passando dai cosiddetti "colletti bianchi" alla politica.

E in questo "pellegrinaggio" è incappato in un pestaggio. Era il 16 aprile di quattro anni fa.

Cos'è successo quel giorno?

"Sono andato in campagna per dare da mangiare al cane, ho preso la ciotola ma Bonnie era stranamente nervosa. Ho chiuso il recinto e alle mie spalle sono spuntate due sagome nere incappucciate. Quella più alta e robusta mi ha bloccato e mi ha girato il braccio destro dietro la schiena. Il dolore è stato atroce. L'altro uomo mi ha colpito alle gambe per farmi cadere. Poi sono arrivati i calci, una lunga serie. Mi dicevano: 'Devi farti i fatti tuoi, hai capito?', le stesse parole che qualche giorno prima mi erano state rivolte al telefono, infine se ne sono andati. Sono riuscito a chiedere aiuto col cellulare e ho chiamato mio padre. Ho ripreso conoscenza solo in ambulanza. Ora ho una menomazione per le conseguenze della frattura in più punti alla spalla".

L'incontro con Papa Francesco (Ansa)
L'incontro con Papa Francesco (Ansa)
L'incontro con Papa Francesco (Ansa)

Come vive adesso?

"Non sono abituato a drammatizzare, e preferisco puntare sulle inchieste piuttosto che sulla mia storia personale. Ho una vita fatta di rinunce ma anche di protezione. Se sono vivo è grazie allo Stato che ha fatto lo Stato, così come la magistratura e le forze dell'ordine che hanno scoperto il piano per un attentato in cui dovevo morire. Ogni sera torno a casa con 5 uomini di scorta, sono lontano dalla famiglia, dagli affetti, dalla mia terra. Mi rendo conto di aver perso un pizzico della mia libertà fisica personale, ma ho tutelato la libertà più importante, che è quella di pensiero e di parola".

Cosa possiamo fare, tutti noi, perché la mafia non sia più invisibile?

"Tante cose, intanto cercare di informarsi. Paolo Borsellino diceva: 'Parlate di mafia in tv, per radio, sui giornali, ma parlatene', ed è per questo che dobbiamo sapere quello che accade accanto a noi, perché per esempio se non sappiamo cosa consumiamo portiamo la mafia sulle nostre tavole. Oggi la mafia è invisibile, spara meno ma continua a uccidere la speranza, la possibilità di costruirsi un presente e un futuro. Vedo tanta rassegnazione, in tanti diciamo che tutto va male, che i nostri ragazzi non hanno un lavoro. E poi siamo i primi a chiedere una raccomandazione o, quando andiamo alla posta, a cercare l'impiegato amico dietro lo sportello che ci faccia saltare la coda. La lotta alla mafia è un impegno quotidiano di tutti in qualità di cittadini, non di eroi".

Silenzio è ancora una parola d'ordine per i mafiosi?

"Sì e precisamente omertà, assoggettamento, induzione al silenzio. Dei mafiosi non si deve parlare, perché parlarne significa disturbare gli affari. Quelli per cui Matteo Messina Denaro è il latitante tra i più ricercati ma è ovviamente protetto da alcune parti infedeli di questo Stato. Il silenzio è mancanza di cultura, è brodo di coltura delle stesse mafie. I colletti bianchi di cui tanto si parla chi sono in realtà? Avvocati, imprenditori, commercialisti, insospettabili, tutti diventano strumento e braccio armato delle mafie. Quando si dice che la mafia è in Parlamento è una baggianata. La mafia fa affari nelle amministrazioni locali, nelle regioni, province e comuni perché è lì che si gestiscono gli appalti per esempio per la nettezza urbana, per il movimento di terra o per i servizi".

Nel libro scrive che è sbagliato parlare di codice d'onore.

"I mafiosi non hanno onore, è una narrazione delle fiction, non hanno alcun codice etico. Come non è vero che non toccano donne e bambini o che agiscono solo al sud. La più piccola vittima di mafia, Caterina, aveva qualche settimana di vita ed è stata uccisa a Firenze nella strage di via De' Georgofili. E poi c'è il caso di Giuseppe Di Matteo, 12 anni, sciolto nell'acido".

I giovani sono una chiave di svolta?

"Sono la vera chiave di svolta. Peggio della mafia c'è solo la cultura mafiosa, che può essere debellata dai ragazzi. Agli studenti che incontro nelle scuole racconto delle mie inchieste, faccio nomi e cognomi. Una volta, ad Avola, dopo una mattinata bellissima trascorsa con loro ho saputo che nel pomeriggio i figli del boss di cui avevo parlato sono andati a chiedere di incontrare gli stessi ragazzi per spiegare loro perché il padre delinqueva. Incredibile. Noi abbiamo il dovere di far capire alle nuove generazioni che è solo con la cultura che possono crescere, con i fatti e non con aria fritta".

Al Premio Ischia Internazionale di Giornalismo a giugno (Ansa)
Al Premio Ischia Internazionale di Giornalismo a giugno (Ansa)
Al Premio Ischia Internazionale di Giornalismo a giugno (Ansa)

Quali sono le nuove frontiere dalla mafia?

"La mafia oggi ricorre alla violenza solo quando è necessario. Si è evoluta. Gli affari sono quelli delle agromafie, del gioco d'azzardo, anche online, delle catene di supermercati o dei centri ricettivi. E anche nel campo dell'occupazione: la gente non deve accettare un lavoro dato dalla mafia, perché il lavoro è prima di tutto libertà. E se un mafioso ti offre un lavoro, un giorno ti chiederà il conto".

Lei in Sardegna è mai venuto?

"Sì, nel 2013 per una settimana. È stato in quel bellissimo mare che ho fatto il mio ultimo bagno e ho goduto della vostra meravigliosa terra. E poi uno dei ragazzi della mia scorta è sardo, e mi fa toccare con mano le vostre abitudini, la vostra laboriosità, ma anche la vostra 'testa dura', che spesso si scontra, lo dico in modo benevolo, con certe situazioni".

Tornerà? Magari per parlare della sua storia, del suo libro.

"Sembrerà strano ma la Sardegna è l'unica regione, l'unica su tutte, dalla quale non ho ricevuto alcun invito, chissà...".

Nell'Isola si dice che la mafia non ci sia. È possibile che alcune regioni siano escluse?

"Non esistono regioni, direi anche nazioni in Europa, in cui non ci sia la presenza mafiosa. Non è necessario che ci sia un clan, ma se pensiamo all'arrivo della droga, al gioco d'azzardo, tutto è appaltato alla criminalità di stampo mafioso in una sorta di reticolo complesso. Avete avuto boss che sono ancora ricercati, come Attilio Cubeddu, quindi non siete immuni. Chi dice 'da noi la mafia non esiste' sta dicendo in realtà 'venite qui che vi vogliamo conoscere'".

Per i più il giornalista che vive sotto scorta è solo Roberto Saviano, in realtà sono tanti altri. Un fenomeno in crescita?

"Purtroppo il nostro Paese paga un tributo altissimo in termini di giornalisti uccisi dalla mafia: almeno nove. La libertà di stampa storicamente è stata messa in discussione molte volte, e il fenomeno cresce, sì. Ma a rischiare sono in particolare i colleghi che fanno informazione locale, non tanto nazionale, perché sono quelli che vanno a scavare, e quando scavano trovano. Se non è mafia è corruzione, ma sono due facce della stessa medaglia. Il giornalista minacciato non va sulle prime pagine dei giornali, quindi le mafie possono continuare. Ecco perché dobbiamo parlarne, ma non delle questioni personali delle minacce, quanto delle inchieste che portano avanti i giornalisti: perché sono finiti nel mirino della criminalità? Perché la mafia li voleva uccidere? Partiamo anche ovviamente dai nostri sbagli, e dai giornalisti condannati in quanto 'penne delle mafie'; per essere creduti dobbiamo essere credibili".

Sabrina Schiesaro

(Unioneonline)
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