Parliamo spesso di leadership ma mai di gerarchia. Mentre la leadership si occupa di comportamenti, la gerarchia di distribuzione del potere decisionale. La gerarchia, e non la leadership, crea il reale campo da gioco nel quale operiamo. E noi lo sappiamo perché, nei nostri luoghi di lavoro, la gerarchia la respiriamo tutti i giorni. E sappiamo che ha effetti importanti sia sul nostro benessere, sia sul nostro lavoro. Anzi affidiamo spesso proprio alle strutture gerarchiche il presidio dell’efficienza e della stabilità delle nostre organizzazioni. A volte con risultati sconfortanti dal punto di vista dei risultati sul lavoro, della motivazione personale, della serenità e della qualità della vita. Però: chi potrebbe anche solo immaginare di fare a meno della gerarchia dentro un’organizzazione? Sarebbe il caos. Infatti.

Marina Capizzi nel volume "Non morire di gerarchia” (Franco Angeli Editore, 2023, pp. 268, anche e-book) non ci descrive un mondo del lavoro – e non solo – privato di strutture gerarchiche, ma la domanda che si pone e sulla quale ingaggia il lettore è: che cosa ci impedisce oggi di andare oltre la gerarchia e di farla evolvere? Inizia così un viaggio appassionante che ci porta ad esplorare le gerarchie che abbiamo conosciuto finora, nei due milioni e mezzo di anni della nostra permanenza sulla terra, gerarchie nate per sopravvivere nel presente e per difenderci nel futuro, che sono ancora la struttura portante nelle nostre organizzazioni.

Ma la gerarchia che conosciamo è l’unica forma possibile? E prima di tutto, veramente rischiamo di morire di gerarchia come in certo senso evoca il titolo del libro? Lo chiediamo a Marina Capizzi:

«Si, perché tendiamo a considerare la gerarchia, così come ci arriva dal passato, una struttura inevitabile e immutabile. Il solo pensiero di metterci mano ci fa tremare i polsi perché pensiamo che l’alternativa alla gerarchia sia il caos. Quindi, anche se viviamo tutti i giorni i limiti e i costi di questa struttura portante delle nostre organizzazioni, tendiamo a considerarli problemi inevitabili, quasi “naturali”, mentre sono l’effetto diretto di una gerarchia inadeguata ai tempi. Qualche esempio? La lentezza decisionale che deriva dal fatto che l’autonomia è concentrata solo sui ruoli manageriali. La demotivazione di chi sta in basso alla piramide e ‘non è pagato per pensare’…».

Perché è così difficile cambiare il nostro concetto di gerarchia?

«Innanzitutto, perché tutti noi siamo nati e ci siamo formati dentro una logica gerarchica che prevede la separazione tra chi pensa/decide/programma/ controlla, e chi fa. Infatti, ci sembra ancora normale che chi sta ‘sopra’ dica a quelli che stanno ‘sotto’ cosa devono fare, così come ci sembra naturale che il controllo debba venire sempre dall’alto. In secondo luogo, perché sulla gerarchia abbiamo molte certezze e ideologie ma riflettiamo poco: chi la difende a spada tratta e chi la combatte come fonte di privilegio e di ingiustizia. In realtà, non potremmo fare a meno della gerarchia perché ci aiuta a creare ordine basato sul criterio di importanza. Per questo produciamo in continuazione gerarchie di concetti, di priorità, di valori, di affetti…. Il problema è che nelle organizzazioni coltiviamo e riconosciamo solo una gerarchia quella del potere che aumenta man mano che saliamo lungo la piramide. Ma ci sono tante altre gerarchie che possiamo coltivare».

La copertina del libro
La copertina del libro

La copertina del libro

Quali?

«La gerarchia di competenza, dove decide il più esperto; gerarchie di vicinanza al problema, dove decide chi ha il problema davanti; gerarchie fatte di team dove le persone decidono insieme: ad esempio, come organizzare il lavoro, gestire i momenti di picco, apportare piccoli miglioramenti continui, accogliere meglio i clienti…».

Nel libro parla molto di paura e della necessità di abbassare i costi della paura. Ma cosa intende precisamente?

«La gerarchia è una struttura semplice: una persona comanda, e gli altri ubbidiscono. Questo schema, che ci ha consentito di sopravvivere per milioni di anni in un mondo pericoloso e di risorse scarse, è basato sulla paura. Fare paura a chi sta sotto, è uno strumento di esercizio del potere che è a sempre stato utilizzato da chi sta ‘sopra’. Ma il mondo di oggi è troppo complesso per essere gestito solo da chi è al comando. Le aziende per crescere e per svilupparsi hanno bisogno di persone pensanti che si facciano carico e che contribuiscano a tutti i livelli dell’organizzazione. Per fare questo, le persone devono potersi esporre, prendersi dei rischi e condividere con trasparenza i propri errori, per imparare insieme ai colleghi come evitarli in futuro. Tutte prassi che cozzano con la logica gerarchica tradizionale dove le persone sono chiamate solo ad ubbidire. Oggi, sviluppare l’obbedienza invece della competenza mette a rischio le imprese».

Perché il team è tanto importante e cosa ha in più dell'individuo?

«La piramide è basata sui singoli: singoli ruoli, singoli obiettivi, singoli riconoscimenti (quando ci sono), singole carriere, eccetera. Ma le persone da sole non riescono a realizzare granché. Tutto quello che realizziamo lo realizziamo con gli altri. Un gruppo di persone che lavora insieme (nei negozi, nelle filiali, negli uffici, nelle unità produttive) possiede una ricchezza di informazioni e di competenze che se fossero messe insieme e orientate ad un obiettivo comune produrrebbero molto di più di quello che possono produrre i singoli individui. E questo farebbe crescere le persone e anche migliorare i prodotti e i servizi forniti dalle imprese, generando motivazione e rendendo l’azienda più competitiva».

Nel libro parla anche di cultura, anzi della necessità di riprogettarla. In che senso?

«Ogni sistema sociale (famiglia, impresa, Paese, ecc.) genera una cultura, cioè un insieme di approcci mentali, valoriali e comportamentali comuni. Non è detto però che la cultura attuale di un sistema sociale, sia più la più adeguata peril futuro. Riprogettazione della cultura significa innanzitutto far emergere il purpose, cioè, ciò che l’azienda vuole dare a tutti i suoi interlocutori (clienti, dipendenti, azionisti, fornitori, comunità e al pianeta) attraverso l’esercizio proprio business, cioè attraverso la vendita dei suoi prodotti e servizi. Nel mondo moderno, il purpose è la prima ‘gerarchia’ che deve guidare tutte le scelte operate ad ogni livello dell’organizzazione, perché è la ragion d’essere dell’impresa che, se è moderna e al passo con i tempi, è certamente un sistema economico ma anche uno strumento di generazione di benessere per i suoi stakeholder. Poi il purpose deve essere tradotto nei valori e nelle regole e, infine, nei comportamenti quotidiani che li traducono in atti concreti. Purpose, valori, regole e comportamenti coerenti sono il nucleo della cultura. Se si vuole far evolvere la gerarchia, però, è importante che le aziende, o qualsiasi altra organizzazione, riprogettino la propria cultura coinvolgendo tutte le proprie persone. Nel mio libro, “Non morire di gerarchia”, parlo di due aziende che hanno fatto questo percorso: il Gruppo Credem e Fidia Farmaceutici».

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