Salvarsi dalle camere a gas e dai forni cucendo abiti d'alta moda per le dame dell'élite nazista berlinese e per le signore dei propri aguzzini.

È la suggestiva storia contenuta in “Le sarte di Auschwitz” (Rizzoli, pp. 432), racconto dell’autrice inglese Lucy Adlington su come venticinque ragazze sono sopravvissute al campo di sterminio grazie al loro talento e abilità.

Storica della moda, autrice di diversi romanzi ambientati negli anni Quaranta, in questo suo primo libro tradotto in italiano la Adlington mostra con uno sguardo inedito le orribili crudeltà e contraddizioni del regime nazista. Tutte dell'Europa orientale, per la maggior parte slovacche, tranne due francesi, le ragazze arrivate ad Auschwitz nel 1942 lavoravano in una stanza nel seminterrato dell'edificio che ospitava gli uffici amministrativi delle SS. La moglie del comandante, Hedwig Hoss, che aveva ideato il laboratorio di alta sartoria, era la loro principale cliente.

Non è un segreto che le donne dell'élite nazista attribuissero valore agli indumenti, "Eva Braun, l'amante di Hitler, adorava la moda al punto da farsi consegnare l'abito da sposa nella Berlino in fiamme degli ultimi giorni, prima del suicidio e della resa tedesca. Lo indossò con un paio di scarpe Ferragamo" spiega la Adlington, ma la sola idea di una sartoria d'alta moda per signora ad Auschwitz "rappresenta un'orribile anomalia".

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Le 25 sarte passavano le loro giornate, con un fazzoletto bianco in testa, tagliando, cucendo, disegnando senza sosta abiti e biancheria. La più piccola aveva 14 anni e la chiamavano Gallinella, le altre erano intorno ai vent'anni. Le due francesi non erano ebree, ma le comuniste Alida e Marilou, arrivate per essersi opposte all'occupazione nazista del loro Paese. Tra loro si creò una rete d'amicizia e lealtà e mentre infilavano aghi, tra il rumore delle macchine da cucire, imbastivano insieme agli abiti progetti di resistenza e fuga. A volte le cucitrici assegnate al turno di notte nella sala rammendi, riuscivano nell'operazione rischiosissima di sintonizzare la radio sulla Bbc.

Il laboratorio "condensava i valori di fondo del Terzo Reich: il privilegio e il compiacimento uniti al saccheggio, alla degradazione e all'omicidio di massa" sottolinea l'autrice che ha intervistato l'ultima sopravvissuta ancora in vita, la signora Bracha Kohut, quando aveva 98 anni, nella sua casa sulle colline non lontano da San Francisco.

"Le sarte di Auschwitz”, che include foto in bianco e nero e che è nato anche dall’incontro dell’autrice con le famiglie delle sarte, "non è un racconto romanzato. Le scene e le conversazioni intime descritte si basano interamente su testimonianze , documenti, prove materiali e memorie narrate ai membri delle loro famiglie o personalmente a me, corroborati da ampie letture e dalla consultazione degli archivi" sottolinea nell'introduzione l'autrice.

La Adlington ricostruisce anche il rapporto del nazismo con la moda e ci mostra quanto "eliminare gli ebrei dall'industria della moda e dal settore dell'abbigliamento nel suo insieme" non fosse "un effetto collaterale fortuito dell'antisemitismo" ma un vero e proprio obiettivo.

Marta Fuchs, che gestiva il laboratorio ed era conosciuta per la sua bravura come sarta anche oltre il filo spinato, salvò tante donne insistendo anche per avere altre lavoranti al laboratorio.

Con Marta l'atelier di Auschwitz diventò un rifugio "anche per chi non sapeva tenere in mano ago e filo". Grazie alle relative condizioni di privilegio di cui godevano le sarte potevano anche riunirsi la sera in gruppi di studio condividendo le loro conoscenze. Alcune presero lezioni di tedesco, altre impararono il francese. Anna Binder, una delle più intime amiche di Marta - racconta la Adlington - amava discutere di scienza e filosofia. Le piaceva anche comporre poesie satiriche e questo "le procurò tre settimane di prigione, quando fu scoperta".

Parlare di quello che hanno vissuto è stato per molto tempo impossibile. Per Bracha Kout che è stata ad Auschwitz mille giorni e ogni giorno avrebbe "potuto morire mille volte", per anni l'Olocausto è stato un argomento tabù. E quando a Marta i nipoti chiedevano che cos'era il tatuaggio con il numero del campo 2043, lei rispondeva: "È il numero di Dio".

(Unioneonline/v.l.)

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