Alla fine, c'è da giurarci, magari con le dovute precauzioni, la Festa si farà: Sant'Efisio uscirà dalla chiesetta di Stampace per fare, per la 364ª volta il suo pellegrinaggio. D'altronde, è uscito anche nel 1943 quando la città era stata distrutta, pochi mesi prima, dalle bombe alleate. Certo, la preoccupazione c'è dal momento che la serrata totale rischia di prolungarsi. Ma Sant'Efisio, i cagliaritani ne sono certi, uscirà. Sarebbe un'atroce una beffa che proprio un'epidemia fermi una cosa tanto sentita in città. D'altronde, il voto fu fatto dai cagliaritani proprio in occasione di un'altra epidemia. Quella di peste che, nel 1655, colpì pesantemente la città, provocando la morte di almeno ventimila persone.

Una vera e propria strage che si sarebbe potuta evitare o, quanto meno, limitare se gli spagnoli che allora regnavano sull'Isola avessero mostrato un po' di saggezza. Perché, nonostante la medicina fosse ai primordi, c'era chi aveva spiegato come ci si sarebbe dovuti comportare. Nel 1582, una nave marsigliese, approdata ad Alghero, provocò un'epidemia spaventosa. Un bilancio da brividi: morirono, nel giro di pochi mesi, oltre seimila persone, se ne salvarono appena 150. Fortunatamente, un medico sardo, Quinto Tiberio Angelerio, suggerì drastiche ma opportune decisioni: un muro sanitario impedì che l'epidemia dilagasse in tutta l'Isola; nessuno, nobili e benestanti compresi, fu autorizzato a superarlo.

A raccontare il valore di quel medico è stato Sergio Atzeni nel suo libro "Gli anni della grande peste". «Grazie al medico», scrive, «la peste non uscì dai bastioni di Alghero e l'Isola fu risparmiata. Angelerio descrisse i sintomi del male e i migliori accorgimenti per combatterlo in un libro di 110 pagine (98 in latino, 12 in catalano, pubblicato nel 1558. Medico e libro furono dimenticati».

Così, quattro anni dopo la pubblicazione del libro, nell'aprile del 1652, giunse, sempre ad Alghero, una "tartana carica di mercanzie" (così viene descritta dai cronisti dell'epoca): la nave proveniva dalla Catalogna dove era in corso un'epidemia di peste. Nessun controllo fu fatto alla partenza e all'arrivo capitò una cosa ancora peggiore: il veguer di Alghero e il giurato a capo della città si fecero corrompere e consentirono l'approdo della nave senza alcuna patenta di sanità. Eppure, come racconta Jorge Aleo, uno dei narratori di quegli episodi, nonostante la medicina fosse ancora primitiva, era facile individuare i sintomi di quella malattia.

Non fu predisposto, come aveva suggerito Angelerio, alcun cordone sanitario e, appena un mese dopo, il batterio arrivò a Sassari. Fu una strage anche perché, dopo la precedente epidemia, il re di Spagna aveva fatto requisire le poche scorte di grano, orzo e legumi rimaste per destinarle al suo esercito. Si morì di peste e di fame.

Gli spostamenti da una parte all'altra dell'Isola si fermarono non per decisione dei regnanti ma per l'impossibilità di effettuarli. Ma, nell'aprile del 1655, la peste arrivò anche a Cagliari. E ci fu l'ennesimo atto criminale delle autorità: davanti ai primi casi sospetti, fu mantenuto il più assoluto silenzio per non turbare l'ordine pubblico. Nel frattempo, tutti i nobili e i ricchi, compreso lo stesso viceré, erano fuggiti a Sassari dove, nel frattempo, l'epidemia si era fermata.

Fu un'ecatombe: a maggio e giugno morirono circa duecento persone al giorno. Alla fine, si contarono circa diecimila morti in una città che, in quel momento, aveva ventimila abitanti. Scenari da incubo. Inizialmente, i morti venivano seppelliti nei cimiteri delle chiese, in particolare, nella chiesa del Santo Sepolcro. Ma gli spazi divennero sempre più angusti. Così alcuni vennero gettati in mare, nella zona della grotta dei Colombi. C'è un luogo che, ancora oggi, ricorda quella terribile vicenda: nel quartiere di Castello, esiste via del Fossario. A pochi passi dalla Cattedrale, c'era un immenso cisternone, proprio sotto il monastero dei frati cappuccini, il Fossario, appunto: i cadaveri, cosparsi di calce, venivano gettati dagli interradores in questa gigantesca fossa comune. Nel frattempo, i malati venivano isolati e internati nel lazzaretto di Sant'Elia, nel castello di San Michele e nella chiesa del Carmine. Altri luoghi di raccolta furono creati anche a Bonaria, San Benedetto, San Giacomo e nel convento della Santissima Trinità.

Ma c'è, soprattutto, un'altra cosa che oggi ricorda quella tremenda pagina della storia cagliaritana: la medicina, allora, poteva ben poco contro quella malattia. E allora i fedeli fecero l'unica cosa che potevano: chiesero aiuto a Sant'Efisio. Sarà stata l'intercessione del martire guerriero o, semplicemente, il fatto che il bacillo non aveva più persone da infettare. Ma, nel giro di pochi mesi, dopo aver decimato la popolazione, la peste perse la sua virulenza (anche se, poi, proprio per l'insipienza degli spagnoli, che non sottoposero a quarantena un soldato malato proveniente da Cagliari, l'epidemia arrivò a Napoli dove uccise 200 mila dei 450 mila abitanti). I cagliaritani, dal canto loro, decisero di ringraziare Sant'Efisio promettendogli di fare, ogni anno, un lungo pellegrinaggio dalla città al luogo in cui fu martirizzato. Un rito che si ripeterà il 1° maggio per la 364ª volta.
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