La dura esperienza del Covid ci accompagnerà ancora per qualche tempo, speriamo breve grazie ai vaccini. E’ di quelle che non si dimenticano e, giacché ogni esperienza insegna, conviene chiedersi che cosa abbiamo imparato grazie ad essa.

Intanto ci ha aiutato a conoscerci meglio, nei nostri difetti, ma anche nei pregi. Tra questi, gradito e inatteso, il senso della disciplina, la capacità di sentirci comunità, nel pericolo che ci minacciava e nella gratitudine verso chi, nell’impossibilità di difendere se stesso, continuava anche a rischio della vita il suo lavoro di assistenza e cura delle vittime del virus. E il dolore partecipe, che ci assaliva nel vedere le file notturne di camion militari carichi di corpi senza vita avviati all’obitorio in città lontane, privati dell’ultimo saluto dei loro cari. Esperienze emotive di umanità sofferente che forse ci hanno resi migliori.

Non sembri banale, ma anche la nostra proverbiale refrattarietà, molto italiana e tutt’altro che britannica, a fare la fila negli uffici postali o in altri luoghi pubblici o privati pare che si sia attenuata, quasi che la pandemia, dopo aver posto sullo stesso piano gli europei rispetto al virus, ne abbia ridotto altresì le differenze nei galatei della quotidiana convivenza.

Qualcuno, attento più alle apparenze che alla sostanza, ritiene altresì che nell’infuriare dell’infezione abbiamo fatto progressi sul terreno della educazione civica e delle consapevolezze della cittadinanza; che sia cresciuto nel Paese il senso di appartenenza alla casa comune; che si sia ridotta la distanza tra i cittadini e le istituzioni, e ne sarebbe prova il fatto che una volta al giorno, e spesso con una frequenza maggiore, da tutti atteso, compariva sullo schermo della TV, anche nelle ore notturne, il volto accigliato e tuttavia rassicurante del Presidente del Consiglio, a dare le ultime notizie sul numero dei contagi e dei decessi, e le istruzioni e l’elenco dei comportamenti consentiti o da evitare, e di quelli sanzionabili.

Su un piano più strettamente pedagogico e scolastico occorre rilevare che la pandemia e il suo temuto ritorno, in particolare la preannunciata e controversa regola del distanziamento, ha posto sul tavolo un dato che va considerato sotto un duplice riguardo: sia come pratica temporanea e prudenziale di natura prossemica a difesa dai possibili contagi, sia come permanente modalità d’impiego degli spazi d’aula, capace di ridurre il numero degli alunni per classe, non solamente in quelle cosiddette “pollaio”, ma in tutte le classi, in maniera generalizzata e strutturale. Solo a questa condizione sarebbe infatti possibile praticare l’individualizzazione e la personalizzazione dell’insegnamento, strategie didattiche necessarie a garantire, nella misura e nei limiti in cui ciò sia possibile alla scuola, la piena formazione di tutti gli allievi, compresi quelli socialmente e culturalmente deprivati o con difficoltà di apprendimento e di adattamento alla vita scolastica, che alimentano le ricorrenti e allarmanti statistiche sulla dispersione. Che sarebbe un altro modo di pensare ai giovani e al loro futuro, e quasi una piccola grande riforma.

Tra le voci in negativo ci sarebbe da segnalare il fatto che, nella circostanza, l’amministrazione è apparsa sguarnita di figure capaci di svolgere un ruolo attivo nella lettura delle realtà scolastiche, nell’individuazione dei bisogni e nel coordinamento tecnico pedagogico delle autonomie, peraltro scarsamente valorizzate. Al diligente lavoro della dirigenza amministrativa è mancato l’apporto di quella tecnica, avvolta in un silenzio che speriamo non sia pitagorico, giacché l’Amministrazione non può fare a meno dell’apporto prezioso della componente ispettiva, tanto meno in momenti difficili come quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo.

Gabriele Uras
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