Una voglia sotto l’occhio sinistro, scura come un acino maturo incastonato nella pelle chiarissima. Così è nato Uvaspina, il femminiello sensibile e fragile, che tutti chiamano con quel nome che lo identifica con la sua macchia. A quasi tutto Uvaspina è capace di abituarsi: al notaio Pasquale Riccio, suo padre, che torna a casa solo per i pasti e si vergogna di lui; alla Spaiata, sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio non si dà pace per aver perduto il proprio fascino e finge di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, di poco più piccola. Minuccia feroce fino alla crudeltà, che tiene in scacco il fratello con la sua forza fisica, con le sue ripicche, con l’acume di chi sa colpire nel punto di massima fragilità. Eppure, solo Uvaspina conosce l’innesco profondo che rende la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi lineamenti nel sonno.

Fratello e sorella sono i due protagonisti di Uvaspina (Bompiani, 2023, pp. 432, anche e-book), sanguigno esordio letterario di Monica Acito. Intorno ai due personaggi si muove Napoli, la città dalle viscere ribollenti, dai quartieri protesi verso il cielo, dai lunghi tentacoli immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra. È proprio su questo confine tra la città e il mare, tra la storia e il mito, che Uvaspina incontra Antonio, il pescatore dagli occhi di due colori diversi, che legge libri e non ha paura del sangue. La purezza del loro incontro, però, non potrà nascondersi a lungo: la città li attira a sé, Minuccia come uno strummolo gira e il suo laccio unirà per sempre i loro destini.

Uvaspina, la copertina del libro
Uvaspina, la copertina del libro
Uvaspina, la copertina del libro

A Monica Acito abbiamo chiesto come è nato questo suo romanzo di forti passioni:

«Ho cominciato a scrivere il romanzo a novembre 2020: ricordo che il nome ‘Uvaspina’ mi è arrivato dal nulla, come se una parte del mio corpo avesse già conosciuto l’involucro di quel nome. Non c’è stata una vera e propria spinta, è come se avessi masticato queste suggestioni da un decennio buono, in maniera del tutto inconsapevole: scriverle è stato un processo automatico, avvenuto quasi sotto dettatura. Uvaspina l’ho conosciuto senza conoscerlo, l’ho incontrato quando sono stata pronta ad accoglierlo».

Ci sono scrittrici o scrittori a cui si è ispirata?
«Il primo scrittore che mi ha segnata a livello epidermico è stato senza ombra di dubbio Gabriel Garcìa Màrquez. La sua Macondo ancestrale, rude, primitiva, dolcissima e oscena, è stata la mia prima casa letteraria: tutta la mia adolescenza e la mia gioventù l’ho vissuta nel perimetro di quella città immaginaria. I riti primitivi della Colombia arcaica sono così imparentati con quelli della Campania che per me è sempre stato naturale fare questa equazione e sentire una consanguineità tra i due universi. Tra le altre e gli altri che mi hanno influenzata ci sono Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Domenico Rea, Giuseppe Patroni Griffi, Ruggero Cappuccio».

Particolare è la lingua da lei usata nel suo romanzo…così, per esempio, ci descrive Minuccia, dicendoci che: «Tutto in Minuccia era movimento e rotazione, come un giocattolo di legno: quando gli occhi di Minuccia diventavano opachi come la polvere del vico Belledonne, allora Uvaspina capiva che lo strummolo si era incantato. Quando Minuccia si inceppava non bastava tirare lo spago o la cordicella perché lei iniziava a girare all’impazzata, e nella sua traiettoria diventava un asso pigliatutto, faceva il gioco della scopa d’assi e della smorfia. Tutto si pigliava, Minuccia bella: i quadri e i cuori, le coppe e i bastoni, le ciglia nere del fratello e il doppio mento della Spaiata...».

Come definirebbe la lingua da lei usata?

«La mia è una lingua onnivora, che prende e cattura tutto, lo mastica e lo sputa. Non ha mezze misure, è crudissima e animalesca e tenera insieme, può anche risultare disturbante. In realtà non nasce in un momento preciso, ho sempre scritto così, credo si sia costruita e stratificata negli anni trascorsi tra il Cilento e il centro storico di Napoli».

Napoli che ruolo ha nel romanzo?
«Mi preme dire che questo non è un romanzo su Napoli, ma al tempo stesso Napoli vive e palpita in controluce, come una bestia che divora tutto e lo digerisce nei vicoli e nelle onde scure. La pancia di Napoli contiene la parabola di Uvaspina: c’è la Napoli popolaresca e spavalda, quella spudorata della Spaiata, la Napoli forcellara, quella borghesotta di Chiaia, poi c’è anche il Cilento con i suoi boschi, la Costiera Amalfitana, il Sannio con Guardia Sanframondi e i suoi Riti Settennali, l’isola di Procida. Mi piace dire che questo libro, tra le altre cose, è anche una lettera brutale e appassionata a tutta la Campania, la mia regione».

A quale dei suoi personaggi è più legata e in quale si riconosce?

«Mi rivedo tanto in Graziella la Spaiata, la mamma di Uvaspina e Minuccia. Anche io sono una tabagista sfrenata come lei, ho cominciato a scrivere e fumare quando ero praticamente una bambina, mi hanno sempre affascinata i funerali e il mondo dei morti…mio zio ha un’impresa di pompe funebri. Uno dei miei posti preferiti di Napoli è il Cimitero delle Fontanelle, dove ci sono le capuzzelle e le anime pezzentelle. La Spaiata ha un respiro letterario assurdo, lei è una donna plebea di Forcella ma al tempo stesso una praefica romana, che si guadagna da vivere strappandosi i capelli per i morti che nemmeno conosce. Come la Spaiata, anche io quando mi innamoro divento un po’ patetica e teatrale nei gesti, ma alla fine mi riduco sempre ad aspettare. E nell’attesa, di solito mi affaccio alla finestra e mi accendo anch’io una sigaretta, però non di contrabbando».

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