La guerra di Troia? La conosciamo grazie ad Omero. Le guerre puniche? Ci sono state tramandate solo da alcuni storici romani, cioè dai vincitori. E che dire dei poemi cavallereschi dove a combattere sono sempre prodi cavalieri innamorati della lotta oltre che della dama di turno? Insomma, bastano questi pochi accenni per capire come la guerra sia stata a lungo raccontata con il senno di poi oppure da generali e condottieri o ancora da chi era ben lontano dai campi di battaglia. Nell’ultimo secolo le guerre ci sono state raccontate prima di tutto dal cinema, che ha contribuito in maniera enorme a costruire il nostro immaginario su soldati, battaglie, vinti, vincitori, eroi e vigliacchi.

David Thomson, uno dei più importanti critici cinematografici americani, partendo da questo assunto ci offre nel suo saggio La fatale alleanza (Jimenez Edizioni, 2024, euro 24,00, pp. 488) uno sguardo lucido e caustico su un secolo di battaglie rappresentate sul grande schermo.

La fatale alleanza non è però un saggio critico sul cinema bellico, non è una semplice cronologia o un’indagine standard sui film di guerra. Certo, David Thomson rivolge il suo sguardo penetrante a molti classici del genere e ad alcuni dei suoi film preferiti, da “Niente di nuovo sul fronte occidentale” a “Il ponte sul fiume Kwai” fino a “Salvate il soldato Ryan”. Però il suo saggio vuole essere una meditazione sul rapporto spinoso tra guerra e cinema, una esplorazione priva di pregiudizi su come la guerra e il cinema nel XX secolo siano inestricabilmente legati.

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Il cinema era ancora agli esordi all’inizio della Prima guerra mondiale, eppure in meno di un secolo i film hanno trasformato l’esperienza civile della guerra – e la storia stessa – per milioni di persone in tutto il mondo. Hanno reso la violenza spettacolo, emozione, piacere… togliendo alla guerra il dolore, il sangue, la paura. Come scrive Thomson del suo libro: «Questo è un libro sulla guerra, un tentativo di descrivere la dinamica di infatuazione cinematografica per la battaglia. Ma guerra e battaglia non sono la stessa cosa: la guerra è un male che risiede nella natura e nella società, l’espressione profonda della nostra paura; la battaglia, invece, aspira al brivido e all’avventura, come andare al cinema gestendo la paura».

L’infatuazione del cinema per l’evento bellico e il fascino che esso esercita sugli spettatori è l’enigma morale al centro del libro di Thomson. I film di guerra danno prestigio e sono spesso campioni di incassi; ma c’è qualcosa di problematico nel fatto che gli spettatori apprezzino le rappresentazioni di violenza su larga scala, come Apocalypse Now, Black Hawk Down o persino Star Wars. E cosa dice questa verità su di noi, sulla nostra cultura e sul nostro mutevole senso della guerra e del passato? Probabilmente ci dice che abbiamo dimenticato cosa sia una battaglia, realmente e crudelmente. Rimane l’aura mitica della guerra «che è bella anche se fa male» come canta in Generale Francesco De Gregori, un’aura mitica che anche grazie al cinema non è evaporata nel corso del Novecento neppure di fronte alla mole di testimonianze che raccontano le violenze perpetrate dai combattenti suoi vari fronti.

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