Quella del Jazz è una grande storia. È una storia fatta di personaggi, stili, innovazioni e tecnologie. È una storia che si estende sui cinque continenti e a tutte le latitudini. Raccontarla in maniera esaustiva è impresa da far tremare i polsi, eppure il bel volume La storia del Jazz (Hoepli, 2020, pp. 594, anche e-book) ci riesce egregiamente grazie alle molte frecce al suo arco. Prima di tutto l'attenzione alle radici del fenomeno jazzistico e alla volontà di affiancare nella trattazione in modo organico Stati Uniti, Europa e Italia, mostrando in parallelo come il linguaggio del Jazz - nato in Nordamerica - si sia radicato e modificato sulle due sponde dell'Atlantico. Altra novità è il taglio divulgativo della narrazione, rivolta a lettori interessati sì alla musica ma non necessariamente specialisti. Informazione, analisi, riferimenti storico-sociali, tendenze sono, infatti, proposti in capitoli molto godibili, grazie al ricco corredo dai box di approfondimento, discografia (oltre 250 album consigliati) e cronologia. Insomma, un volume densissimo e appassionato, frutto del sapiente lavoro a sei mani di Luigi Onori, critico musicale, Riccardo Brazzale, musicista, e Maurizio Franco, musicologo. Proprio a uno degli autori, Luigi Onori, chiediamo prima di tutto perché conoscere la storia del Jazz è tanto importante: "Quella del Jazz è una delle tante storie che ci aiutano a capire il Novecento. Ci aiuta, per esempio, a comprendere come una popolazione oppressa, gli afroamericani, sia riuscita a dare un contributo musicale enorme alla musica. E il Jazz è veramente un fenomeno musicale che attraversa tutto il XX secolo, ma non solo: riesce, infatti, ancora a interpretare la contemporaneità. Ha quindi un meraviglioso passato, ma anche un presente molto interessante. Nel libro, non a caso, arriviamo fino al 2020, fino ai jazzisti illustri uccisi dalla Covid e alle ultime tendenze che sono più cronaca che storia".

Come mai la scelta di arrivare a ridosso dell'attualità?

"Per noi autori era importante dare un input anche ai più giovani. Spesso, soprattutto nella nostra attività di docenti, ci troviamo a contatto con ragazzi che provengono da esperienze musicali lontane dal Jazz e hanno bisogno di essere motivati a conoscere meglio questo tipo di musica, che considerano magari un reperto, per quanto affascinante, del passato. Invece il Jazz ha ancora parecchio da dire e da far capire".

Cosa ha da dire il Jazz in un'epoca come la nostra dominata, in ambito musicale, dal rap?

"Intanto il Jazz già da decenni si relaziona con fenomeni come il rap. Esempi di questa relazione sono Steve Coleman, già negli anni Novanta del Novecento, oppure, più di recente, il trombettista afroamericano Ambrose Akinmusire. Per tornare alla domanda, il Jazz è da sempre il crocevia di tantissimi fenomeni e delle tantissime pulsioni che si ritrovano nella società. Lo è sempre stato e continua a esserlo. È un grande collettore dove far convergere forme espressive diverse e non a caso ci sono molti giovani musicisti che magari non fanno del Jazz il loro credo indiscusso, ma uno dei linguaggi guida della loro espressività".

Ma il Jazz trova spazio nel panorama musicale?

"Non con facilità perché nella produzione musicale ci sono meccanismi un po’ ‘bloccati’. Non a caso nel libro abbiamo parlato dell’Associazione Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) che rivendica il ruolo culturale di questa musica. Si tratta di una annosa battaglia, iniziata addirittura più di trent’anni fa da un’altra associazione, l’Associazione Musicisti di Jazz (AMJ), il cui primo presidente fu un musicista di una levatura enorme, Bruno Tommaso".

Lei ha toccato il tasto della presenza jazzistica italiana. Ma che contributo ha dato il nostro Paese al Jazz?

"Ci tengo particolarmente a dire che nel libro non ci soffermiamo solo sul Jazz americano o di derivazione americana. Diamo largo spazio alla produzione jazzistica delle diverse scuole nazionali europee sorte soprattutto a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. L’Italia, in particolare, ha dato un contributo enorme al Jazz, anche perché in una delle prime fucine jazzistiche, la città di New Orleans, vi era una numerosa comunità italo-americana. Una delle prime registrazioni Jazz della storia, quella dell’Original Dixieland Jass Band – e siamo nel 1917 –, ha visto la presenza degli italo-americani Nick La Rocca e Tony Sbarbaro. Non dimentichiamo, infatti, che il Jazz è una musica con forti radici afroamericane, ma è stata anche una musica creata dai tanti migranti giunti da tutto il mondo negli Stati Uniti".

Ma quando sbarca il Jazz nel nostro Paese?

"Fin dalla fine degli anni Dieci del Novecento giunge in Italia la musica sincopata di ispirazione afroamericana. Poi c’è il rapporto particolare con il fascismo, un rapporto in cui da una parte il regime considerava il Jazz in modo negativo, ma poi lo tollerava e lasciava che questo genere influenzasse la produzione musicale degli anni Trenta. Poi, dopo la guerra, c’è stato l’intreccio fortissimo tra Jazz e cinema, fino ad arrivare a una vera e propria scuola nazionale italiana con personaggi del calibro di Giorgio Gaslini, Enrico Intra, Mario Schiano. Oggi, tra le famiglie del Jazz europeo, quello italiano è tra i più apprezzati per la sua originalità, qualità melodica, progettualità e livello tecnico. Insomma, il Jazz italiano è estremamente vivo grazie a musicisti come Paolo Fresu, Pietro Tonolo, Stefano Bollani, Stefano Battaglia, Gianluca Petrella e tanti altri".
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