“Mi porterebbe a casa, adesso?’ chiede mia madre. Mi dà del lei, non ha idea di chi io sia […] Faccio trascorrere alcuni minuti, mi volto ancora verso di lei e chiedo ‘Chi sono io?’. Alza lo sguardo dalla pagina, mi guarda con un cipiglio offeso ‘Mia figlia, vuoi che non lo sappia?”.

È così che comincia il dramma di una figlia, che vede la madre perdere la propria vitalità giorno dopo giorno, a causa delle compromissioni cognitive dovute alla demenza: “La demenza è così, scompiglia, crea, cancella e ricompone parole che sembrano mischiate alla rinfusa generando frasi in apparenza senza senso […] è un’immagine che inquieta quella del vecchio, che scardina certezze, che impone un pensiero che non abbiamo voglia di pensare, che toglie la speranza e innanzi alla quale non resta che arrendersi ora”.

È una figlia che ha dovuto imparare a cogliere i momenti di effimera lucidità per parlare con la madre, convivendo quotidianamente con un senso di frustrazione, quando questa la scambia per un’estranea: “Forse è solo questione di abitudine. Abituarsi a camminare nelle sabbie mobili della sua mente, abituarsi a non avere certezze, a non prendere le parole per quello che, come lei stessa ci ha insegnato, pensiamo vogliano dire”.

Si definisce una figlia sollecita, che si è abituata con il tempo a quella che definisce “la monotona scansione di mia madre”, durante le giornate cadenzate da ritmi predefiniti: darle da mangiare, cambiarle il pannolone, aspettare la badante. Per assistere sua madre, ha scelto di sacrificare anche la sua vita col marito e di ritagliarsi solo dei brevi momenti con lui. Il loro è diventato rapporto lacerato dall’accudimento, dalle visite ospedaliere e dai turni con le badanti: “Cos’altro sono questi eventi che mettono in affanno se non occuparsi di chi ti ha amato?”.

Dopo la malattia della madre, la sua vita è cambiata. Ha scelto di accudirla, anche se questo l’ha posta davanti a una serie di interrogativi in merito alla decisione di lasciarla nella sua casa o se portarla in una struttura: “Ma cos’è preferibile, l’estirpazione compensata dalla compagnia della casa di riposo, o starsene a casa nell’isolamento in cui releghiamo i vecchi con le loro badanti?”.

Le fasi della malattia della madre la portano a fare i conti col senso di impotenza e con la rassegnazione di dover ripetere ogni giorno lo stesso schema; di dover rispondere alle stesse domande, ripetute più volte; e di restare in quella dimensione passata, in cui tutti i ricordi sembrano essere rimasti ancora preservati.

Ogni giorno, resta aggrappata alle speranze e al tocco rugoso delle mani della madre, che ancora custodiscono il calore dell’amore materno, mentre la sua identità di figlia svanisce con la malattia: “E balzo oltre l’istante del mancato riconoscimento e mi predispongo all’attesa del ritorno in lei di un’idea di me […] Dire che la demenza ha cancellato tutta la sua vita è quantomeno riduttivo, lo ha fatto anche con la nostra […] cancellata la madre la figlia che è in me sta svanendo”.

“Io sono Nina” è un libro di Gabriella Mazzon Venturati.

In questo libro, viene espresso il dolore di una figlia che perde sua madre giorno dopo giorno. E ben descrive quali sentimenti provano i famigliari, che si ritrovano a prendersi cura del proprio genitore e in questo senso assumere un ruolo invertito nella sfera dell’accudimento. La frustrazione e il senso di impotenza, davanti al decadimento cognitivo dell’anziano, sono i sentimenti che maggiormente accompagnano i figli, i quali si trovano spesso a convivere anche col senso di colpa, per aver affidato il genitore a una casa di riposo. Questo libro ben descrive come l’accettazione della malattia sia un percorso lento, che porta inevitabilmente a fare i conti con una sofferenza psicologica del sistema famigliare, costretto a convivere con la consapevolezza che il genitore non tornerà più come un tempo.  

La copertina del libro
La copertina del libro
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