C’è stato un uomo, un giurista polacco nato insieme al Ventesimo secolo, che per primo diede un nome a quel crimine di portata tale da eccedere ogni giurisprudenza. Si chiamava Raphael Lemkin e raccontare la sua vita significa ripercorrere il Novecento dei grandi crimini contro l’umanità.

Relegato a semplice teorico del diritto, Lemkin è, però, stato colpevolmente dimenticato, mentre il suo neologismo – il termine “genocidio” - è diventata la parola, del secolo scorso e di questo.

Partendo dai documenti e dalle sue opere, Girolamo De Michele nel suo Il profeta insistente (Neri Pozza, 2025, pag. 320, anche e-book) racconta questo tenace profeta visionario, rende omaggio alla sua memoria e offre preziosi spunti per una riflessione critica sul dibattito ideologico dell’oggi.

Ma chi era Raphael? E come nacque la parola genocidio? Quella per la definizione legale del crimine di sterminio di intere popolazioni fu per il giurista polacco la battaglia della vita, una battaglia legata alla sua esperienza personale. Lemkin era nato nel 1900 presso la città di Hrodna, oggi Bielorussia, ma all’epoca territorio polacco inglobato dall’Impero russo degli zar. Fin da bambino, il futuro giurista imparò che essere ebrei significava trovarsi in balia della volontà e dei soprusi della maggioranza. Nella Russia zarista erano, infatti, frequenti i pogrom antiebraici.

Finita la Prima guerra mondiale si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e cominciò a ragionare sulla necessità di una legislazione internazionale in grado di prevenire e contrastare ogni tipo di odio contro le minoranze, fosse esso legato a motivi etnici, religiosi, culturali. Aveva letto dello sterminio degli Armeni durante la Grande guerra e si convinse che crimini che miravano a cancellare del tutto un popolo dalla faccia della Terra non potevano essere semplicemente classificati come crimini di guerra. Erano delitti contro l’umanità stessa che necessitavano di una giurisprudenza specifica.

Le idee di Lemkin suscitarono scalpore in patria e il giurista venne accusato di pensare solo a difendere i diritti delle minoranze, come quella ebraica a cui apparteneva, e non di fare gli interessi della Polonia. Venne emarginato così dall’establishment giuridico polacco e gli furono tolti gli incarichi universitari e pubblici. Nonostante l’isolamento, lanciò appelli, sempre più allarmati, ma inascoltati, per quello che stava accadendo nella vicina Germania con la presa del potere di Hitler.

Raphael fece allora il grande passo in solitudine: fuggì in Svezia e poi nel 1941 negli Stati Uniti. Riuscì così a scampare, probabilmente, alla morte. Quando i nazisti occuparono tutta la Polonia ben 49 suoi famigliari morirono nei campi di sterminio. In America Lemkin non rimase con le mani in mano. Tempestò di appelli il presidente Roosevelt perché denunciasse al mondo lo sterminio degli ebrei, ma alla Casa Bianca non trovò ascolto. Allora si dedicò alla scrittura.

Nel 1944 diede alle stampe il volume Axis Rule (La legge dell’Asse) in cui ricostruiva in maniera minuziosa le politiche naziste di annientamento dei popoli vinti e di quelli considerati “inferiori”, come gli ebrei. Scrisse: «Il crimine del Reich nello sterminare volutamente e deliberatamente interi popoli non è del tutto nuovo nel mondo. È nuovo solo nel mondo civilizzato che siamo giunti a concepire. È così nuovo nelle tradizioni dell'uomo civilizzato che non esiste un termine che lo definisca. È per questo motivo che mi sono preso la libertà d’inventare la parola "genocidio". Questo termine deriva dalla parola greca ghénos, che significa tribù o razza, e dal latino caedo, che significa uccidere. Il genocidio deve tragicamente trovare posto nel dizionario del futuro accanto ad altre parole tragiche come omicidio e infanticidio».

A quel punto Lemkin ebbe una sola missione: ottenere che il reato di genocidio venisse riconosciuto dalle Nazioni Unite. Divenne l’incubo delle diverse delegazioni nazionali presenti all’Onu. Aspettava i funzionari fuori dai loro uffici, li tormentava fino a convincerli ad impegnarsi nell’approvazione di una Convenzione sul genocidio. Divenne il profeta insistente rievocato nel titolo del libro di De Michele. Le cose allora si sbloccarono. L’11 dicembre 1946 venne approvata la Risoluzione 96 che recita: «Genocidio è la negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani; questa negazione del diritto all’esistenza sconvolge la coscienza umana, infligge gravi perdite all’umanità, che si trova privata degli apporti culturali o di altra natura di questi gruppi, ed è contraria alla legge morale e allo spirito e agli obiettivi delle Nazioni Unite».

Il 9 dicembre 1948 fu adottata la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, scritta con il contributo dello stesso Lemkin. Ora era possibile perseguire penalmente e a livello internazionale quello che era stato fino a quel momento il “crimine senza nome”.

A quel punto anni di logoramento e di tensioni esplosero tutti assieme. Lemkin ebbe un esaurimento nervoso. Per dedicarsi anima e corpo alla Convenzione sul genocidio aveva perso gli incarichi universitari e si ritrovò sul lastrico. Senza casa e soldi, venne aiutato da pochi amici, mentre cresceva in lui l’ossessione di non aver fatto abbastanza. Negli ultimi anni della sua vita continuò a insistere perché venisse considerato genocidio non solo lo sterminio fisico di un popolo, ma anche ogni tentativo di schiacciare la sua lingua e la sua cultura.

Poi, il 28 agosto 1959 Raphael Lemkin si accasciò a una fermata di autobus a New York. Nella sua misera casa in affitto vennero trovati solo pochi abiti e una montagna di carte scritte a mano e non ordinate. Su un foglio aveva scritto di sé stesso: “Al di sopra di tutto vola un’anima bella che ama il genere umano e perciò è sola”.

La speranza è che, grazie anche al libro di Girolamo De Michele, quella solitudine sia ora meno profonda, magari più rasserenata.

© Riproduzione riservata