“A me non piace scrivere, ho sempre odiato scrivere, perché mi viene difficile, faccio molti errori e la trovo una cosa noiosissima. A noi dislessici piacciono le immagini”. È così che Benny introduce la sua autobiografia e la sua difficile esperienza con la scuola, che gli ha segnato l’esistenza e gli ha precluso quella tanto agognata libertà: “La scuola ha disegnato ferite nella mia anima che porto dietro ancora oggi”.

Ai tempi di Benny, la dislessia non era riconosciuta e non veniva diagnosticata. Lui era stato giudicato dalle insegnanti come stupido e problematico. Anche in famiglia non riescono a comprendere la sua difficoltà. I genitori appaiono rigidi con le loro regole ferree. Pensano sia indolente e gli fanno prendere lezioni private, ma anche la sua insegnante non riesce ad aiutarlo: “Non c’è stato nulla da fare, la mia testa era chiusa, bloccata”. Benny odiava scrivere: “La penna è uno strumento pesantissimo, come una spada del medioevo. Traccia linee storte che non ti piacciono. La penna è un mostro deforme che si trasforma sul foglio attraverso la tua mano […]e per quanto tu ti possa sforzare di andare dritto lei continua a storcersi fino a prenderti lo stomaco e a trafiggerti, fortemente […] la penna è anche rossa e ti segna gli errori, e ti mette i giudizi e ti dice sempre che sei insufficiente”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Benny comincia a sentirsi diverso. Avverte la forte solitudine e quella forte rabbia verso quel sistema scolastico, che non riconosce il suo impedimento: “[…] Se sei un bambino come puoi sperare di essere compreso? Sei solo un bambino e devi stare alle mie regole. Così parla l’adulto […] come bambino io non sono mai esistito, non sono mai stato ascoltato, non sono stato capito […] ci ho provato in tutti i modi a far capire a chi mi stava intorno che io proprio non ci riuscivo a studiare, non riuscivo a leggere, odiavo scrivere”.

Benny non si sente compreso. Davanti a sé, trova solo sorrisetti ignobili, che lo scherniscono per le sue incapacità. E dalla condizione di bambino ferito passa a quella di “ragazzo scheggiato”. Tuttavia, Benny, tra le diverse difficoltà, giunge a laurearsi ed è proprio durante un tirocinio, in un centro di neuropsichiatria infantile, che scopre la sua diagnosi. Si identifica nelle problematicità di quei piccoli pazienti, li comprende quando dicono che la scuola fa schifo; e, mentre osserva le procedure dei test sulla lettura e la scrittura, capisce di essere stato un bambino dislessico, mai riconosciuto.

Giunge a riaprire i suoi vecchi quaderni e riscontra le inversioni delle lettere e dei numeri; rivede la sua grafia incomprensibile e il disordine nell’organizzazione delle materie. Decide di aprirsi un blog, per condividere lo stesso tortuoso percorso delle persone come lui. Si documenta sempre di più, legge libri e comincia a dare un senso al suo vissuto e comprende le sue difficoltà a distinguere la destra dalla sinistra o perché prediligeva le scarpe a strappo e non con i lacci: “Io ho finalmente capito che la mente di un dislessico funziona per immagini, apprende e trasforma la realtà attraverso di esse […] finalmente ho raggiunto la mia libertà”.

”Il bambino dimenticato” è un libro di Benny Fera.

In questa autobiografia emergono i vissuti che provano i bambini con disturbi specifici dell’apprendimento, laddove la prestazione scolastica appare fallimentare e il confronto con i pari diviene fonte di frustrazione e disagio. La dislessia si manifesta con una difficoltà che riguarda l’apprendimento alla lettura, e, davanti a tale complessità i bambini possono apparire maggiormente irrequieti, manifestare problemi di autostima e una grande sofferenza emotiva che li fa percepire diversi. La diagnosi comporta accettazione e il percorso non sempre è lineare, ma come il protagonista impara: “Si facevano da parte tutti i cattivi pensieri su di me, iniziavo a vedere un nuovo Benny, con le sue specifiche caratteristiche”.   

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