Francesco Cesare Casula: «Gli errori della nostra storia»
Inizia oggi la collaborazione con il docente di Storia medievale. I fatti e i personaggi, dal Regno di Sardegna all’età modernaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Grazie alla disponibilità de L’Unione Sarda, a cui va tutta la mia riconoscenza, con spirito di sardista culturale amante della propria terra inizio da oggi una lunga serie di articoli settimanali di storia sarda: non raccontata – com’è d’uso – ma interpretata e ragionata nella sua morale ultima, al fine di stimolare, usando pure l’ironia, i miei conterranei alla consapevolezza degli errori fatti durante il corso dei secoli, a partire da seimila anni avanti Cristo fino ad arrivare ai giorni nostri, in modo che – se possibile – si eviti di rifarli d’ora in avanti.
I nostri errori storici
Quindi, leggendomi non troverete la solita esposizione di Storia isolana tradizionale, quella ripetuta dagli storici locali sempre uguale dal tempo di Giovanni Francesco Fara nel Cinquecento in poi, troverete invece la denuncia degli sbagli comportamentali commessi da noi nel passato lontano e vicino, e le conseguenze che giustificano la condizione della Sardegna attuale, totalmente dipendente dalla penisola italiana in tutti i settori della vita: dalla politica alla cultura alla società e perfino all’economia. Effettivamente, senza che ce ne accorgiamo, siamo del tutto colonizzati dai Peninsulari, tanto che molti di noi sono i primi a difendere ciò che hanno appreso dall’esterno fin dalle Elementari, tramite i libri scolastici, i giornali nazionali, la televisione di Stato, la cinematografia e perfino l’web, senza minimamente metterlo in discussione.
Rivendicare la Statualità
Con questi miei scritti di storia, non pretendo di convincere nessuno a cambiare mentalità: ognuno è libero di pensarla come crede; ma, attraverso l’esposizione degli errori fatti nel passato, indico – se veramente vogliamo invertire il trend almeno della dipendenza culturale proveniente dall’esterno – l’unica via possibile non violenta e più facilmente raggiungibile: quella di poter rivendicare, in faccia a tutta la Nazione, la paternità dello Stato che da settecento anni ci governa, chiamato all’inizio Regno di Sardegna, poi Regno d’Italia, oggi Repubblica Italiana, con tutte conseguenze politiche e sociali positive che ne deriverebbero.
Il ruolo della Regione
Certo, sarebbe meglio che ad imparare dagli errori del passato, per non rifarli incoscienti nel futuro, fossero soprattutto gli alunni delle nostre scuole di ogni ordine e grado: i Sardi del domani; ma, per questo, ci vorrebbe l’intervento diretto della Regione Autonoma della Sardegna attraverso l’Assessorato alla Pubblica Istruzione. Chissà se…
***
TANTI POPOLI SARDI FIN DALL’ORIGINE
Un detto spagnolo – Non so chi disse per primo, in spagnolo, che noi Sardi siamo “pocos, locos y mal unidos” che, in italiano, vuol dire: “pochi, dissennati e disuniti”. Pare sia stato un vescovo del Cinquecento quando dal 1324 il Regno di Sardegna fin dalla sua formazione era uno Stato in unione reale aggregato alla Corona di Spagna, e gli alti prelati venivano dalla penisola iberica a ricoprire tale incarico perché noi indigeni non avevamo uomini di Chiesa tanto titolati e capaci.
Fermiamoci, però, ad esaminare la frase apparentemente ingiuriosa sebbene, per molti aspetti, vera.
Siamo pochi abitanti – Per quanto riguarda i “pocos”, anche oggi, all’inizio del terzo millennio, siamo effettivamente “pochi”: un quinto della Sicilia, e tendiamo sempre più a diminuire perché molti giovani sono indotti a lasciare l’isola, visto che non hanno prospettive di lavoro. Che poi, quelli che restano, siano “dissennati” nei confronti della Storia come al tempo del vescovo spagnolo, non mi pronuncio sebbene lo pensi, in quanto mi inimicherei la totalità dei miei conterranei, permalosi e vendicativi. Invece, da storico, posso dire perché siamo “disuniti” Lo siamo da sempre.
Il concetto è evidente nel nostro comportamento sociale nel corso dei secoli ed è esplicito nella documentazione archivistica medievale del Trecento, specie arborense: «Siate uniti come i corvi che non si cavano gli occhi fra loro – predicavano i preti nelle chiese di Oristano nel giugno del 1365 – … sennò arriva Pietro III d’Aragona col suo esercito e caverà gli occhi a voi e al re Mariano IV». In quel periodo era in atto una guerra feroce fra il Regno di Arborea e il limitrofo Regno di Sardegna dei Catalano-Aragonesi; e alla fine vinsero quest’ultimi perché coesi; noi, no. “Mutatis mutandis” è un monito valido ancora oggi, se seguitiamo a cavarci gli occhi fra di noi, lasciando la nostra terra in balia di chi solidale viene a sfruttarla.
I primi sardi – Quando l’isola si affaccia alla storia scritta, circa mille anni avanti Cristo, l’uomo con la sua donna e i suoi figli vi si era già insediato stabilmente dal Paleolitico, da più di seimila anni. Veniva da luoghi diversi e in tempi diversi. Ragionevolmente i primi abitanti avevano linguaggi differenti ed usanze differenti fra loro. Impiegarono tantissimo tempo per occupare tutto il territorio e venire a contato gli uni con gli altri, e a confrontarsi. Penso che non fossero più di centomila, e frazionati. I Romani, quando arrivarono nel 238 a.C. trovarono sparsi nell’isola almeno venti “popoli”, tutt’altro che uniti e pacifici: i Beronicenses fra il basso Sulcis e l’Iglesiente; i Giddilitani, gli Euthicani e gli Uddadhaddar nel Montiferru; i Luguidonensi nel Logudoro; i Bàlari nell’alto e basso Coghinas; i Corsi e i mitici Lestrigoni nella Gallura; gli Iliensi o Iolei nelle montagne di Alà; i Nurritani nella zona di Orotelli; i Parati, i Sossinati e gli Aconiti probabilmente fra i monti Albu e Remule; i Cunusitani e Celsitani a Fonni; gli Esaronensi nella valle del Cedrino e, ancora, i Galillensi pensati nell’alto Flumendosa, sotto il Gennargentu. Si ha notizia, infine, di qualche altro probabile antico popolo sardo, come i Maltamonenses, i Semilitenses e i Moddol, che collochiamo approssimativamente tra i fiumi Cixerri e rio Mannu.
Ancora oggi siamo disuniti – Insomma, già da allora eravamo divisi gli uni dagli altri, e con esigenze diverse: chi benestante stanziato nella fertile pianura, chi indigente racchiuso nella sterile montagna, e si combattevano fra loro per la sopravvivenza, e i ricchi si difendevamo dalle scorrerie degli affamati barbaricini montanari costruendo i turriti nuraghi.
Saltando i secoli il concetto dei Sardi “disuniti” è rimasto lo stesso. Ancora nel 1877, non molto tempo fa, Giovanni Siotto Pintor scriveva una “Storia civile dei popoli sardi”, al plurale. La Prima guerra mondiale parve compattarci sotto il fuoco austriaco nelle doline del Carso, e, nel 1921, il Partito Sardo d’Azione lo sancì a Macomèr coi Quattro Mori che, però, non si guardano fra di loro, perché hanno la benda sugli occhi (sic!).
E adesso? ci possiamo dire finalmente “uniti” tanto da smentire il severo giudizio del vescovo spagnolo del Cinquecento? Perciò mi chiedo: l’Ogliastrino si sente davvero uguale al Barbaricino, e il Barbaricino uguale al Gallurese, e il Gallurese uguale al Sassarese, e il Sassarese uguale all’Oristanese, e l’Oristanese uguale al Cagliaritano? Mah! Ne dubito.
Francesco Cesare Casula