C’è sempre stata un’unica guerra nella storia dell’umanità perché la guerra è da sempre uguale a sé stessa: fa soffrire i più deboli, distrugge, toglie speranze e sogni, mortifica l’umanità. È così anche la guerra al centro del romanzo d’esordio del giornalista cagliaritano Luca Foschi, “Al Ghalas. L’ora più buia per il Medio Oriente” (Bompiani, 2024, pp. 545, anche e-book).

Il protagonista del libro, Ernesto Fiaschi, è, infatti, un giornalista freelance. Partito dalla periferia di Is Mirrionis, a Cagliari, ci racconta le esperienze rocambolesche in Palestina, Libano e Afghanistan, passando per Londra e arrivando fino a Kobarid, in un memoir sui generis. Storia di formazione dallo stile lirico e avanguardistico, Al Ghalas (termine arabo antico che indica il momento più oscuro della notte) s’immerge nell’accadere della guerra e nel sentire degli ultimi regalandoci personaggi indimenticabili come il prete partigiano Abuna, la premurosa drag queen Edith, formidabile coinquilina a Beirut, il piccolo Cermil, uno dei tanti, meravigliosi ragazzi che fanno da guida a Fiaschi nei luoghi più difficili.

A Luca Foschi abbiamo chiesto come è nata la scelta di passare dal giornalismo al romanzo:

«Il libro nasce dalla necessità di andare oltre i naturali limiti del giornalismo. Limiti di spazio naturalmente, ma soprattutto di linguaggio e, per così dire, di ‘inquadratura’. La prosa giornalistica è costruita su una medietà stilistica più o meno nobile, riporta luoghi, persone e fenomeni che intrecciandosi facciano sintesi. Afferma più che domandare, è più orizzontale che verticale. Io ho cercato di restituire tutto il caleidoscopio degli accadimenti avvenuti fuori e dentro di me, di manomettere il mio stesso canone narrativo per aprire al dubbio, all’emozione, al caos, componenti del reale che spesso vengono banditi dal discorso. Per questa ragione lo stile passa dal lirico al popolare, i grandi eventi della storia si alternano alle minuzie del quotidiano, il comico al tragico in un soliloquio che vuole essere aperto a tutti, popolare. Il giornalismo naufraga nella letteratura. Una vecchia storia».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Perché la scelta di fare narrare il libro al protagonista, in prima persona?

«È stato un gesto spontaneo, non una scelta. Ho sentito la prima persona come lo spazio più adatto alla rappresentazione dell’eterna lotta fra parole e cose. Nel flusso del linguaggio si dissezionano i processi che muovono il protagonista, Ernesto Fiaschi, schiacciato come tutti i cronisti coscienziosi fra i fantasmi dei fenomeni e il dovere di comunicare, fra il sentimento lirico o grottesco e il messaggio quotidiano. Torniamo al dolce naufragare del giornalismo, all’allucinazione che la realtà sempre è. E a tanta filosofia e letteratura del ‘900».

Ha conosciuto veramente nei suoi viaggi giornalistici personaggi come il prete Abuna, Edith e Cemil?

«Il romanzo gioca strutturalmente nell’intreccio di realtà e finzione. È un groviglio che spero risulti armonioso. Alcuni personaggi parlano e agiscono come in pagina. Altri sono totalmente inventati e rappresentano un’idea, o sono sublimazioni, addensamenti, composizioni di incontri, esperienze e necessità narrative. Ma ora sono allineati nella giocosa verità del romanzo, e mi piace conservare il segreto della loro natura…».

Cosa rappresenta per lei il Medio Oriente?

«Il Medio Oriente è il luogo dove sono diventato cittadino del mio tempo, dove, travolto, sono riuscito a bucare la membrana che ci separa dal sentimento di appartenenza al destino di tutto ciò che altrimenti appare alieno e distante. Da spettatore a personaggio di un teatro in fiamme, dove è rappresentata sanguinosamente la cattiva coscienza dell’Occidente, il suo pervicace orientalismo, la ferocia del potere, l’inanità della comunità internazionale, l’infinita bellezza degli ultimi, l’abisso e il fulgore dell’esistenza».

Cosa significa fare il giornalista in zone di guerra oggi?

«Significa forse misurarsi con le remote analisi degli esperti di geopolitica, con i satelliti delle grandi potenze e l’egemonia di certe narrazioni, con la superficialità virulenta della rete. Gli Esteri hanno bisogno di corrispondenti, non di inviati o autoinviati che arrivino a sciami a spolpare lo spettacolo della devastazione, per poi rapidamente ripartire. Un corrispondente mobile, errante, capace di danzare fra appartenenza e inappartenenza, un cronista organico ai luoghi, alle genti e alle loro periferie, pronto ad abbaiare contro qualsiasi abuso del potere. Dovrebbe esistere il giornalista delle zone del popolo, non della guerra».

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