Come hanno affrontato la pandemia i Paesi asiatici? E come stanno uscendo dall'incubo e concretizzando la "fase 2"? Ne parliamo con Gian Luca Atzori, 30 anni, sinologo e giornalista freelance di Macomer, laurea in Lingue e Culture Orientali a La Sapienza di Roma, studi a Pechino tra la Bfsu (Comunicazione), la Uibe (Economia) e la Tsinghua University (Master of Law in Politica e Relazioni Internazionali), co-fondatore di ProPositivo, l'associazione del Festival della Resilienza, collabora con diverse testate nazionali e per l'agenzia China Files si occupa di Asia Orientale e geopolitica.

La Cina (in particolare la regione dell'Hubei dove tutto è cominciato) è nella fase 2, come sta affrontando la riapertura? Sta funzionando?

"Il 91% delle grandi aziende straniere e circa un terzo delle compagnie cinesi sono ripartite a fine febbraio, dopo un mese di blocco totale. Ora il governo affronta la seconda ondata, ripristinando il lockdown in alcune zone, come la contea di Jia nello Henan (a Sud di Pechino e a nord dell'Hubei). La contea di Jia ha 640 mila abitanti, quindi possiamo dire che la lotta alla pandemia non è ancora giunta al termine neanche in Cina".

Che misure si stanno mettendo in campo per sostenere l'economia?

"L'esecutivo sta implementando un piano di rinascita da 6,5mila miliardi di euro, oltre tre volte la cifra prevista da Trump. Un piano che tuttavia preoccupa gli ambientalisti, in quanto prevede nuovi progetti energetici alimentati con fonti fossili, con un 15% delle risorse previste (circa mille miliardi) destinate in buona parte al carbone. Un fatto che apre a numerose riflessioni, soprattutto se consideriamo come l'inquinamento e i cambiamenti climatici siano annoverati tra le cause all'origine di nuovi patogeni e della loro crescente diffusione e letalità".

I tanto discussi "wet market" sono da chiudere?

"Il wet market di Wuhan (Wuhan's Huanan Seafood Wholesale Market) è considerato il principale epicentro della pandemia di Covid-19. Questi tipi di mercati sono presenti in diversi paesi dell'Asia orientale, non solo in Cina, e nel nostro immaginario collettivo sono stati spesso associati a degrado igienico e alimentare. Credo che chiuderli potrebbe rivelarsi una scelta molto pericolosa: prima di tutto perché non si può generalizzare, ci sono infatti diversi tipi di wet market; secondo, perché se appropriatamente regolamentati e monitorati, non rappresentano un rischio per la salute".

Dove sta dunque il problema?

"Il problema riguarda più in generale l'efficacia dello Stato regolatore in ogni Paese e il modo in cui l'industria tratta le carni. Molte epidemie nascono infatti negli allevamenti, pensiamo alla mucca pazza, all'aviaria, alla febbre suina. Negli ultimi 20 anni la Cina ha avuto numerosi scandali alimentari legati ad una scarsa regolamentazione e monitoraggio delle attività produttive e distributive. Scandali come quello del latte infetto ha tuttora ripercussioni sul mercato, nonostante sia avvenuto 12 anni fa. La questione è inoltre è legata alla tratta di animali. Il Covid-19 è di origine zoonotica, viene trasmesso all'uomo dagli animali. Oltre al pipistrello tra le cause analizzate c'è anche quella del pangolino, piccolo formichiere squamoso, celebre nella medicina tradizionale cinese e tra gli animali più illegalmente trafficati al mondo".

Il governo di Xi si è comportato male nei confronti del resto del mondo nascondendo l'inizio della diffusione del virus?

"Diciamo che rispetto all'epidemia di Sars del 2002/03, Xi Jinping è stato molto più reattivo del suo predecessore Hu Jintao. La prima epidemia di Sars cinese fu celata all'Oms per sei mesi. Questa del Covid-19 è stata inizialmente nascosta creando scandali domestici e internazionali, in particolare per quanto riguarda la morte del medico Li Wenliang, prima censurato per aver dato l'allarme e in seguito deceduto a causa del virus. Di sicuro, quindi, la Cina poteva fare meglio, così come avrebbe potuto essere più trasparente sui numeri. Tuttavia, non sono così sicuro che l'aver dato l'allarme prima avrebbe reso noi Europei più reattivi".

China Files quando ha dato la notizia?

"L'8 gennaio abbiamo riportato una notizia della Cnn che parlava di "un misterioso virus diverso dalla Sars". Il tema però è diventato predominante nella nostra cronaca nazionale quasi due mesi dopo. Era estremamente complesso prevedere la situazione, ma di sicuro questo non significa che politica, media e società civile non abbiano le proprie responsabilità".

Ora la Cina aiuta l'Italia, è pura solidarietà, si sentono in colpa, o tutto ruota intorno a strategie economiche?

"Al contrario di Russia e Usa, la Cina è forse l'unica grande potenza al mondo che, almeno apparentemente, ha mostrato interesse nel supportare un'Europa unita al fine di poter fronteggiare Washington. Gli enormi investimenti per connettere la regione euro-asiatica tramite il progetto One Belt One Road (Nuova Via della Seta) ne sono un esempio pratico. Gli investimenti politici ed economici cinesi non proliferano in un clima di crisi, non a caso, la strategia di Trump è stata quella di destabilizzare i mercati e il dialogo diplomatico, in modo da rallentare il processo di crescita mandarino sullo scacchiere internazionale. Non c'è un unico motivo che anima gli aiuti di Pechino, perché in alcuni casi hanno creato sviluppo mentre in altri hanno esacerbato scontri, come per esempio in Africa. Non dovremmo mai abbassare la guardia, tuttavia c'è da essere grati per il supporto, e ci sarebbe da cogliere l'occasione per stringere maggiori legami diplomatici in vista degli incontri che definiranno il mondo post-Covid".

Huawei, multinazionale di tlc, è presente anche in Sardegna.

"Huawei è al centro di quello che è forse il più grande progetto di innovazione in Sardegna, con un protocollo di intesa con la Regione e con il Crs4. Nel 2016 ha inaugurato a Pula il Centro di Innovazione sulle Smart & Safe City (città intelligenti e sicure), coinvolgendo operatori locali e università. In Sardegna e nel mondo, l'azienda cinese opera come qualsiasi altro colosso hi-tech, ma a differenza degli americani, per esempio, è più soggetta alla volontà del proprio governo. Huawei non è un'azienda pubblica cinese, è privata, anche se tutti i privati ospitano una cellula interna del partito. Ma questo non significa che l'azienda serva meramente gli interessi dell'esecutivo. Il problema per quanto riguarda la natura dei suoi investimenti nell'Isola non concerne tanto la loro volontà, quanto la nostra. Ne avevo scritto all'indomani della visita di Xi in Sardegna, descritta qui come un'enorme occasione per lo sviluppo sardo, mentre in Cina della nostra terra si parlò poco e niente. Se la Regione non vuole risultare passiva nel dialogo con grandi gruppi e grandi potenze deve iniziare a sviluppare politiche attive che gli consentano maggiore potere contrattuale e decisionale sui progetti, piuttosto che subire (e desiderare) investimenti a pioggia, spesso fallimentari perché calati dall'alto e slegati dai contesti locali".

Siamo abituati a vedere i popoli asiatici con le mascherine in ogni circostanza: anche noi dovremo adeguarci? "Personalmente sono dell'idea che se continuiamo a perseguire questo modello di sviluppo le mascherine saranno imprescindibili. Se davvero non le vogliamo, dovremmo iniziare a cambiare sistema produttivo e stili di vita. Un ricercatore di Stanford, Marshall Bruke, ha calcolato che il calo delle emissioni dovuto al lockdown potrebbe salvare 80mila vite nella sola Cina, oltre 20 volte i numeri dichiarati da Pechino, un dato persino superiore delle vittime attualmente causate dal Covid-19 in tutto il mondo. Il nord Italia è tra le zone con l'aria più inquinata d'Europa mentre le emissioni di Pm2.5 e Pm10 determinano la morte prematura di 9 milioni di persone all'anno, due volte quello che fanno le sigarette. Purtroppo tra i leader globali e italiani più influenti, c'è ancora chi pensa che un tale cambiamento strutturale non sia una priorità, nonostante gli studi mostrino come la devastazione degli ecosistemi sia una delle principali cause di pandemia".

Si parla tanto di "modello Corea del Sud": in cosa consiste, potrebbe essere applicato anche da noi?

"Il modello coreano è stato molto differente da quello cinese in quanto ha fatto tesoro delle proprie vicissitudini, perfezionandosi a seguito delle numerose epidemie che hanno colpito il Paese negli ultimi 20 anni (Sars, 2002; Aviaria, 2013; Mers, 2015; Peste suina africana 2019). Interventi rapidi hanno preceduto lo scoppio della crisi con app e innovazioni tecnologiche, test diffusi, tracciamento dei contatti e supporto dei cittadini. La Corea ha mostrato che è possibile sconfiggere il Covid-19 senza bloccare l'economia e senza un lungo isolamento di massa, tuttavia, gli esperti sono scettici su una possibile replicabilità del modello in tutto il mondo, soprattutto dal punto di vista politico. Il primo ingrediente fondamentale per tale sistema è infatti la volontà politica, mentre il secondo è la volontà pubblica".

Perché la maggior parte delle grandi epidemie nascono in Asia?

"Non è proprio così. Pensiamo all'influenza spagnola che si diffuse in Spagna nel 1918 e ritroviamo anche in Nord America nel 2009 sotto il nome di "febbre suina", che causò quasi 300mila vittime diffondendosi in oltre 200 paesi. Il Mers (forma di coronavirus) esplose nel 2015 in Medio Oriente, mentre l'Ebola è stata riscontrata a partire dagli anni'70 e ha l'epicentro nell'Africa centrale. La peste accompagnò invece interi secoli della storia europea. Se tra queste epidemie zoonotiche consideriamo anche i morbi della mucca pazza in Italia, capiamo che lo sviluppo dei virus non è meramente una questione geografica. Secondo l'Università di Roma, quasi tutte le recenti epidemie sono dipese da alta densità di popolazione, aumento di commercio, caccia di animali selvatici e cambiamenti ambientali, quali la deforestazione e l'aumento degli allevamenti intensivi specialmente in aree ricche di biodiversità".
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