Chi è stata Abbey Lincoln? La riposta più semplice potrebbe essere: una cantante jazz dalla molteplice espressività artistica. Oppure una artista che, dagli anni Cinquanta del Novecento agli inizi del XXI secolo, ha cambiato più volte vita e nome, da Anna Marie Wooldridge ad Aminata Moseka, passando per Abbey Lincoln.

Tutte risposte corrette. Abbey Lincoln è stata questo e molto di più: una seducente cantante di club, poi voce del jazz d’avanguardia e, al fianco del batterista Max Roach, in prima linea nella lotta degli afroamericani contro la segregazione e per il riconoscimento dei diritti civili. Abbey Lincoln ha manifestato la sua personalità creativa attraverso la composizione e la scrittura che sono diventate per lei strumenti di resistenza culturale, capaci di favorire un cambiamento sociale. Dagli anni Settanta del Novecento ha costruito il suo personale repertorio superando i limiti dei tradizionali standard per esprimere in forme originali il proprio pensiero rispetto alla complessità della vita.

Afroamericana, geniale, anticonvenzionale, vicina in maniera del tutto personale alla lotta per la liberazione della donna, Abbey Lincoln viene raccontata da Luigi Onori, critico musicale e storico del jazz nel volume “Abbey Lincoln. Una voce ribelle tra jazz e lotta politica” (L’Asino d’oro edizioni, Euro 15, pp. 264. Anche Ebook) attraverso un ritratto, allo stesso tempo, biografico, musicale, poetico, antropologico e filosofico. A Luigi Onori abbiamo chiesto come è avvenuto il suo incontro con Abbey Lincoln: «La voce di Abbey l’ho ascoltata, ed amata, soprattutto nella We Insist! Freedom Now Suite di Max Roach come in Percussion Bitter Sweet, dischi che agli inizi degli anni ’60 (da me ascoltati nei tardi ’70) univano un linguaggio jazz avanzato – ed ispirato – alla lotta politica per i diritti civili degli afroamericani. Di sicuro ho sentito il suo album Straight Ahead. Poi un lungo silenzio fino ad un suo recital romano nel 1984 dove rimasi affascinato dal modo di cantare e proporsi. Agli anni ’90 risalgono la collaborazione con Bheki Mseleku, importante musicista sudafricano, e l’album del 1997 Who Used to Dance, con un’originale versione di Mr. Tambourine Man. Di recente è stata l’autrice e cantante jazz Ada Montellanico, con il suo album-tributo del 2017 Abbey’s Road, a riaccendere l’interesse per la Lincoln. Alla Montellanico devo, in pratica, l’occasione per il libro sulla cantante afroamericana ed il contatto con la casa editrice L’Asino d’oro”».

Perché la scelta di dedicarle un libro?

«Ho sempre amato le ‘zone d’ombra’, i personaggi fuori schema che vanno indagati, i territori in cui c’è da ricercare, scavare: dal jazz sudafricano a quello sovietico, da Bruno Tommaso a Randy Weston. Di Abbey Lincoln mi sfuggiva gran parte della sua storia recente; in più mi affascinava la sua trasformazione, sottolineata dai nomi cambiati: Anna Marie Wooldridge, Abbey Lincoln, Aminata Moseka…».

Cosa ha rappresentato per il jazz Abbey Lincoln?

«Ha incarnato e attualizzato la figura e il ‘canto sociale’ di Billie Holiday e di Bessie Smith. In più, quale originale interprete, ha via via rifiutato la ‘dittatura’ degli standard per creare un suo songbook di oltre 80 canzoni, con testi e musica originali. È stata attrice, intellettuale, pittrice, poetessa… La sua complessa figura, la sua sparizione temporanea, la splendida maturità la rendono una figura di cantante ‘etica’ e ‘politica’, lontana da stereotipi e intrinsecamente libertaria. Un modello canoro che è alternativo e che è, spesso, misconosciuto anche se D.D. Bridgewater, Dianne Reeves e Cassandra Wilson ne sono, ciascuna a suo modo, discepole».

Cosa ha rappresentato per Abbey l’impegno a favore dei diritti degli afroamericani?

«La sua liberazione personale ha coinciso con lo svilupparsi di una consapevolezza quale donna afroamericana e come artista la cui azione era al fianco della lotta del proprio popolo. Abbey ha, così, marciato e cantato con e per gli altri e le altre. Finita la stagione conflittuale alta, non ha mai rinunciato ad una visione della società antirazzista e ugualitaria».

A quale interpretazione di Abbey è particolarmente legato?

«Ho ascoltato e studiato a fondo tutto il suo repertorio, dal 1956 al 2007, fino ad assorbirlo. Lo conosco razionalmente e lo amo emotivamente. Dovendo scegliere mi colpisce molto Learning How to Listen: in essa – Abbey ha 68 anni, siamo nel 1998, l’album è Wholly Earth – riflette sull’essere cantante, sul blues, sull’interpretare ed esprimersi, sul fare musica e su quanto stia ancora apprendendo. ‘Sto imparando ad ascoltare / perché la canzone mi è stata data. / Sto imparando ad ascoltare e a essere libera’. Quanta saggezza, umiltà, umanità, speranza in questi versi e quanto amore per una musica salvifica, relazionale, collettiva».

La copertina
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