La Spagna fu per Hemingway una vocazione più che una destinazione. E se Madrid svolse sempre il ruolo della città trasgressiva, “dove nessuno va a letto prima di aver ucciso la notte”, Pamplona, con la sua folle festa di San Fermín, rappresentò il suo luogo feticcio, il rifugio, anche quando la realtà faceva presagire l’arrivo dei primi fantasmi. Partendo da queste suggestioni il giornalista Giuliano Malatesta si è messo sulle tracce “spagnole” del grande scrittore americano mettendo nero su bianco un libro che è allo stesso tempo memoir e reportage.

“A Pamplona con Ernest Hemingway” (Giulio Perrone Editore, 2024, pp. 136) ripercorre, infatti la lunga relazione di Hemingway con Pamplona - dove lo scrittore americano si recò ben nove volte nell’arco della sua vita - quasi a disegnare un’ideale biografia.

A Giuliano Malatesta abbiamo chiesto come è nata l’idea di un volume così evidentemente innamorato della Spagna e del talento narrativo del grande romanziere statunitense:

«Normalmente i miei libri, quasi sempre legati alla letteratura di viaggio, o comunque a un certo tipo di racconto di un determinato luogo raccontato da una prospettiva spesso personale, non nascono mai da un singolo spunto ma da un insieme di suggestioni, letture, spunti, e chiaramente viaggi. In questo specifico caso avevo ripreso in mano The Sun Also Rise (Il sole sorgerà ancora), che considero un romanzo straordinario, e leggendolo nuovamente mi è venuta la curiosità di approfondire l’avventura spagnola di Hemingway, che in fondo è durata tutta la sua vita. Così, ho lanciato l’idea a Giulio Perrone, con il quale avevo già pubblicato altri due lavori, pensando che la collana Passaggi di Dogana si prestasse perfettamente al lavoro che avevo immaginato».

La affascina più la Spagna o Hemingway?

«Oddio, messa così non saprei rispondere, però posso dirle che il connubio è quasi imbattibile. Scherzi a parte, ho sempre avuto un certo tipo di fascinazione per la Spagna da quando sono ragazzo. Non tanto per le città, anche se da ragazzino impazzivo per Barcellona, mentre oggi penso che Madrid sia per certi aspetti una città più interessante di New York, quanto per la cosiddetta Spagna Eterna. Quella spirituale. Lamenti, mantiglie e battiti di tacco. Quella legata alle tradizioni. Quella delle processioni della Semana Santa e del fervore religioso che trasuda dai dipinti di Zurbarán. Quella che Leonardo Sciascia, raffinato studioso di storia spagnola, definì ‘un modo di essere’ ancor prima che una nazione. Ecco, nei racconti e nelle storie di Hemingway ho ritrovato tutte queste storie e queste atmosfere».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Che tipo di legame ebbe Hemingway con la Spagna?

«La Spagna era a tutti gli effetti la sua seconda patria. Un luogo considerato culturalmente agli antipodi rispetto al cupo mondo anglosassone dal quale proveniva. Ma anche un paese dove dar libero sfogo a molte delle sue iniziali passioni e dei suoi interessi. Penso all’arte moderna, e in particolare al cubismo, che influenzerà profondamente il suo stile di scrittura. Penso naturalmente al mondo della corrida, così importante per lui nella prima parte della sua vita, e ovviamente anche al tema della morte, che ha attraversato potremmo dire tutta l’opera hemingwayana. Una visione della morte intesa come accettazione, come prolungamento della vita, radicalmente diversa da quella cupa e tetra tipica della cultura anglosassone. Per dirla alla Garcia Lorca in Teoria e gioco nel Duende: la morte non è una fine».

Perché tanta attrazione per Pamplona?

«Pamplona rappresenta simbolicamente la sua gioventù, quel luogo dove tornare e sentirsi eternamente fanciullo. Ma anche il campo di battaglia dove finalmente riuscì a trovare il materiale umano e letterario che stava disperatamente cercando dal giorno del suo arrivo in Europa per scrivere il suo primo benedetto romanzo, The Sun Also Rise, ovvero il testo che ha introdotto i lettori al XX secolo. Mi sembra sufficiente per farne una sorta di luogo privilegiato».

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