“Cara Unione,

La mia e quella della mia famiglia è una storia di dolore, che voglio raccontare per unire le persone che come noi hanno dovuto affrontare un vero e proprio calvario. Sardi isolati è un’espressione fin troppo usata ma che rappresenta bene la nostra quotidianità, non possiamo decidere di partire quando vogliamo, dipendiamo sempre da navi o aerei, da giorni e da orari. E da costi.

Mio marito, qualche settimana fa, si è sottoposto a una serie di esami che hanno fatto pensare a un tumore al pancreas. Siamo andati in ospedale, io avevo le lacrime agli occhi, mi sono presentata con tutta la mia disperazione, conscia del fatto che quell’organo sia tanto particolare. La prima ipotesi è stata quella della pancreatite. Pochi giorni dopo è peggiorato e siamo andati al pronto soccorso dove lo hanno trattenuto. Era anche risultato positivo al Covid, poi ci hanno detto che era stato un errore, ma questo non è stato un problema quanto il fatto che lo abbiano poi praticamente abbandonato, a consumarsi come un cerino. E invece il fattore tempo, nelle malattie, è fondamentale. In breve, dopo le dimissioni senza una diagnosi, abbiamo deciso di rivolgerci a un altro medico in Emilia Romagna, attraverso l’interessamento di nostri familiari. E tanto ha fatto per noi l’associazione Codice Viola di Milano, con la quale siamo sempre in contatto.

Sulla base degli esami che avevamo portato da casa, il medico nuovo si è detto ottimista su un possibile intervento, ma che non si doveva aspettare molto, mi ha dato la mano e mi ha detto ‘tornate in Sardegna, poi ci sentiamo e ci teniamo aggiornati’. Ho pensato che fino a quel momento eravamo stati solamente sfortunati, capitati con persone sbagliate.

Purtroppo la tac fatta in quella struttura ha cambiato le carte in tavola: erano comparse metastasi al fegato e ai linfonodi, l’unica soluzione era la chemioterapia. Il mondo ci è cascato addosso. La cosa insopportabile era che tutto intorno fosse andato a ritmo troppo lento nonostante questa mia disperazione io la rappresentassi di continuo, ogni giorno.

Una volta a casa abbiamo organizzato subito le cure. E qui ci siamo trovati di fronte un'altra orribile esperienza. Non voglio fare nomi né luoghi, ma siamo stati accolti da una dottoressa che ha esordito - senza buongiorno né ‘come sta?’, che è la prima cosa che un dottore chiede - rivolgendosi a mio marito con ‘lei è depresso, con una diagnosi del genere non si può che essere depressi’. E ancora: ‘Del resto lei sa che l’intervento non lo farà mai’. In quel momento avrei voluto alzarmi dalla sedia e andarmene, ma non volevo peggiorare la situazione, dovevo pensare a mio marito, a come curarlo al meglio. E quella dottoressa non si è fermata: ‘Se fosse capitato a me, avrei dato di matto’. Purtroppo ho potuto dire poche cose, quello che penso. Ognuno di noi ha un biglietto per lasciare questa vita. Ma nessuno conosce la data. Ecco il nostro destino.

Tutta questa storia l’ho voluta raccontare perché vorrei far sapere che nella sanità ci sono anche medici e personale senza un briciolo di umanità e tatto, con nessun orientamento all’utenza. Chi lavora a contatto con malati oncologici non può essere superficiale perché oggi di superficialità si muore fisicamente e psicologicamente. Mio marito, che può essere il ‘signor nessuno’ per molti, non lo è per noi, per me e per i suoi figli. Avrò un sacco di colpe, ma l’ho accompagnato per mano in questa dura esperienza e vorrei riunire chi ha vissuto difficoltà simili. In tanti possiamo meglio rappresentare lo stato della sanità alla Regione, all’assessorato, non arriveremo mai ad avere centri di eccellenza se non abbiamo persone che curano non solo i pazienti ma anche la propria crescita professionale.

E vorrei tanto, anche, evitare che situazioni simili passino sulla pelle di altri pazienti e di altre famiglie.

Grazie”. 

Lettera firmata*

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