Il “freestyle” dei sardi: la gara poetica logudorese
Rime fendenti e un pubblico, giudice implacabile, che riconosce chi colpisce nel segno e chi noPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Non con l’inchiostro, ma con la voce. Non nelle biblioteche, ma sul palco delle feste di paese. La poesia estemporanea sarda non è letteratura da contemplare: è un gioco, una sfida. È un campo di battaglia dove le rime sono fendenti e il pubblico, giudice implacabile, sa riconoscere chi colpisce nel segno e chi no. Qui il poeta non declama, ma duella. E la parola, prima che bellezza, è responsabilità.
Nel cuore del Logudoro e non solo, sa gara — la gara poetica — è un rito, un tribunale orale, un teatro senza copione. Tre poeti, un palco, una sfida di idee e versi costruiti sul momento, sotto lo sguardo attento di un pubblico che ascolta, approva, disapprova. E applaude solo quando il pensiero si fa canto e il canto si fa verità.
Nata tra le case, durante i banchetti contadini, sa gara ha attraversato secoli in punta di metrica. Dalla prima manifestazione pubblica a Ozieri nel 1896 — quando Antonio Cubeddu inventò una scena che prima non c’era — fino alle feste patronali di oggi, la poesia improvvisata ha continuato a trasformarsi senza mai tradirsi.
La gara poetica sarda non nasce per essere letta. Nasce per essere vissuta. Non ha editore, non ha lettore: ha solo l’ascoltatore. E non c’è palco che tenga se il pubblico non è coinvolto.
Il poeta improvvisatore — su cantadore — si muove sul filo dell’immediatezza: deve essere veloce, colto, acuto. Deve sapere usare la metrica come un’arma e il pensiero come uno scudo. Non canta ciò che pensa, ma ciò che gli viene assegnato (Su tema). Difende tesi, interpreta ruoli. Può trovarsi a sostenere il coraggio contro la paura, la volontà contro il destino, il futuro contro il passato. Ma ciò che conta non è tanto la verità del contenuto, quanto l’eleganza con cui la difende. È teatro civile, è dialettica orale. È filosofia in ottava rima.
Il pubblico non è spettatore passivo. È parte integrante del gioco. È misura del successo e del fallimento. Un verso che non colpisce resta sospeso nel vuoto, uno ben assestato fa esplodere l’applauso. Ogni poeta ha il suo stile, il suo carisma, le sue formule. Ma deve sapersi adattare, rinnovare, reinventare ogni volta. Perché i temi si ripetono, le sfide si somigliano, ma il pubblico è diverso e ogni comunità pretende il suo spettacolo unico.
Durante la gara, i poeti si affrontano a colpi di ottave, quartine, duinas. L’inizio è cerimonioso: si saluta il paese, si ringrazia il comitato, si scalda la voce e l’ambiente. Poi si estrae il primo tema. E lì comincia il vero duello. Un botta e risposta scandito da regole precise e libertà assoluta. Tradizione e improvvisazione. Ritmo e contenuto. Forma e fuoco.
Per secoli, in una terra dove la parola scritta era privilegio di pochi, il poeta improvvisatore è stato educatore, giornalista, critico, comico, pensatore. Ha raccontato storie, veicolato valori, fatto politica in versi. È stato traghettatore di cultura. Non a caso, negli anni del fascismo, le gare poetiche furono vietate. Troppo libere. Troppo scomode. Troppo popolari. Ma la poesia sarda non muore sotto censura. Va in clandestinità. Resta viva nei ricordi, nei cantadores che scelgono il silenzio pur di non cantare a comando. Riemerge nel 1937, monca, mutilata di politica e religione. Ma viva. Sempre viva.
Oggi le gare poetiche non hanno più un vincitore. I poeti vengono pagati tutti allo stesso modo. È l’eco del gesto di Cubeddu, che nel 1915 chiese che ogni cantadore fosse riconosciuto come professionista.
Ma la gara resta un confronto vero. Serve talento, studio, memoria, sangue freddo. Serve una testa che ragiona in metrica. Serve il pubblico. E serve la Sardegna, perché questa gara non si potrebbe fare altrove.