«Sono in fondo alla scaletta. Le zampe del Lem hanno appena intaccato la superficie. La superficie sembra fatta di granelli piccolissimi quando ci si avvicina. È quasi polvere. È finissima. Scendo dal Lem ora. È un piccolo passo per l’uomo ma un gigantesco balzo per l’umanità”. Impossibile dimenticare le parole pronunciate dall’astronauta americano Neil Armstrong rilanciate dalla emozionante telecronaca sulla Rai in bianco nero del giornalista cagliaritano Tito Stagno in una diretta che ha fatto la storia.

Era il 21 luglio 1969, si chiamava missione Apollo 11 e non è stata l’ultima. L’uomo è tornato sul suolo lunare, l’ultima volta tre anni dopo, il 14 dicembre 1972, con Eugene Cerman. Poi più nulla. E ora, a distanza di oltre cinquant’anni ecco Artemis 2. Ma questa volta la Nasa non sarà sola bensì affiancata dall’agenzia spaziale europea, dai canadesi della Csa, i giapponesi della Jaxa e gli italiani dell’Asi.

Nel programma c’è pure il 2025 con la missione Artemis 3 che porterà la prima donna sulla luna: sarà Samantha Cristoforetti? L’astronauta italiana, prima donna al comando della stazione spaziale internazionale, è tra le candidate più accreditate.

Insomma, la luna continua a farci sognare. Nel frattempo gli esperti dell’Università di Cagliari studiano il lato oscuro della materia, e la Sardegna è al centro di avveniristici progetti.

Maria Francesca Chiappe

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Cinquant’anni dopo la missione Apollo 17 ecco Artemis 2: il ritorno sulla Luna

Sono passati 50 anni dall’ultima volta che un uomo mise piede sulla Luna. Era il dicembre del 1972 quando la missione Apollo 17 batteva ogni record restando sulla superficie lunare per 75 ore. Ultima missione del programma Apollo, non fu solo la spedizione lunare più lunga della storia, ma portò il primo e unico scienziato sulla Luna, il geologo Harrison Schmitt. Istruttore degli astronauti del programma Apollo, venne scelto su pressione della comunità scientifica americana. In tre uscite di più di 7 ore Schmitt raccolse, assieme al comandante Eugene Cerman, più di 100 kg di rocce lunari, muovendosi a piedi e con un’automobile lunare.

Dopo cinquant’anni guardiamo al programma Apollo e alla corsa alla Luna con grande stupore. I mezzi tecnologici degli anni ’60 erano meno sofisticati di quelli attuali, i rischi di un fallimento enormi, ma la NASA realizzò in appena sette anni quello che sembrava impensabile. La corsa alla Luna nasce negli USA come una riscossa, rispetto ai successi spaziali dell’Unione Sovietica. Il 25 maggio 1961, poche settimane dopo il volo di Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio, il neo eletto presidente John Fitzgerald Kennedy dichiarò al congresso: «Credo che questo Paese debba impegnarsi a realizzare l’obiettivo, prima che finisca il decennio, di far arrivare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra. Non c’è mai stato nessun progetto spaziale così impressionante per l’umanità o più importante per l’esplorazione dello spazio; e nessuno sarà così difficile e così costoso da realizzare…». L’America lanciò così la sfida all’Unione Sovietica, portando dal luglio del 1969 al dicembre del 1972 12 uomini sulla Luna, in sei differenti missioni. Per raggiungere questo risultato la NASA mobilitò imponenti risorse economiche e umane. Sessantamila scienziati e ingegneri, 400mila persone e 20mila aziende furono impiegate nel programma Apollo, che complessivamente fu un grande successo che ebbe però i suoi fallimenti e vide il sacrificio di tre astronauti. Virgil Grissom, Ed White e Roger Chaffee morirono il 27 gennaio 1967 durante un test di prevolo, a causa di un incendio a bordo del modulo di comando. L’Apollo 13, la terza missione che doveva scendere sulla Luna, ebbe un gravissimo incidente che mise seriamente a rischio la vita dei tre astronauti.

La corsa alla Luna fu un grande incubatore tecnologico. Per poter raggiungere quel traguardo si dovettero sviluppare nuove tecnologie e soluzioni tecniche mai viste prima, con più di 6.300 nuovi prodotti, che ancora oggi ritroviamo nella nostra vita quotidiana. Se abbiamo uno smartphone nelle nostre tasche e un computer nelle nostre case lo dobbiamo a quella rivoluzione elettronica e informatica, nata grazie all’impulso del programma Apollo. Nei tessuti del nostro abbigliamento ritroviamo alcuni dei materiali sviluppati per il programma spaziale, e il velcro oggi usato per chiudere le scarpe dei più piccoli chiudeva le tute degli astronauti. Ma alla fine perché in questi cinquant’anni non si è più tornati sulla Luna? Per gli americani il traguardo era stato raggiunto, le missioni lunari non avevano più l’appoggio incondizionato dell’opinione pubblica ed era impossibile andare oltre, realizzando una base permanente sulla Luna.

Sull’altro fronte i sovietici, provarono in gran segreto a raggiungere il nostro satellite fino al 1972, ma senza successo, vedendo il loro razzo N1 esplodere per ben tre volte senza che lasciasse l’atmosfera terrestre. Dopo preferirono impegnarsi nella permanenza umana nello spazio, costruendo per primi una stazione spaziale permanente in orbita attorno alla Terra. Per tutte le altre nazioni la Luna era irraggiungibile. Oggi il ritorno dell’uomo sulla Luna sembra di nuovo alla portata. Il mese scorso, l’11dicembre, si è conclusa la missione Artemis 1 che ha visto il primo volo di una capsula verso la Luna dopo 50 anni. Lontani dai fasti degli anni ’60 la NASA ha lavorato sodo e in economia per assemblare un nuovo razzo in grado di riportarci sulla Luna. Se il Saturno V del programma Apollo ebbe come padre il celebre Von Braun e importanti fondi per la sua realizzazione, il nuovo lanciatore SLS (Space Launch System) vede le esigenze di bilancio a definirne lo sviluppo, tanto che per il volo inaugurale sono stati montati quattro motori sviluppati per il programma Space Shuttle. Decollata il 16 novembre dalla base di Cape Canaveral in Florida, la missione Artemis 1 è stata un successo. In 25 giorni di permanenza nello spazio ha portato la nuova capsula Orion verso la Luna, testando i sistemi di sopravvivenza umana con tre manichini. Artemis 1 è solo il primo passo, infatti questa volta si intende tornare sulla Luna per restarci.

Gli obiettivi della NASA sono molto ambiziosi e prevedono la costruzione di “Gateway”, una piccola stazione spaziale in orbita lunare che sarà la “porta” per scendere e costruire una base permanente sulla Luna. I tempi per la realizzazione dipendono da molti fattori, ma la prossima missione è stata programmata per il 2024. Artemis 2 viaggerà per circa 21 giorni nello spazio, sorvolando la Luna con quattro astronauti, tre americani e un canadese. A differenza del passato questo nuovo programma spaziale non vede la NASA da sola: l’agenzia spaziale europea ESA, la canadese CSA e la giapponese JAXA sono partner del programma Artemis. Anche l’Italia con l’ASI ha un suo ruolo. Dopo il successo del microsatellite LiciaCube nella missione di difesa planetaria DART è stato lanciato con Artemis 1 ArgoMoon, un altro microsatellite che ha monitorato dall’esterno la capsula Orion. Nel 2025 Artemis 3 dovrebbe portare la prima donna sulla Luna, mentre nelle missioni successive sarà la volta di un astronauta europeo. Fra gli astronauti dell’ESA due italiani: Samantha Cristoforetti e Luca Parmitano. Veterani delle missioni sulla Stazione Spaziale Internazionale, dove hanno rivestito il ruolo di comandanti, entrambi sono nella rosa dei possibili candidati a scendere sulla Luna. Il 14 dicembre del 1972 Eugene Cerman, ultimo uomo sulla Luna, disse: «Mentre compio l’ultimo passo umano sulla superficie della Luna […] la lasciamo come arrivammo e, Dio volendo, come ritorneremo, in pace e speranza per tutta l’umanità».

Manuel Floris

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Da Star Wars all’Università di Cagliari: «Studiamo il lato oscuro della materia»

Il lato oscuro dell’Universo non è solo materia di film fantascientifici. La saga di Guerre Stellari ne ha fatto il centro di una storia dall’enorme successo cinematografico, ma una parte misteriosa e apparentemente introvabile deve esistere realmente in quello spazio infinito che chiamiamo Cosmo. Gli scienziati di tutto il mondo ne sono certi, e chi fa ricerca a Cagliari pure: proprio qui da più di dieci anni è stato messo in piedi un gruppo di lavoro che si occupa di dare la caccia alla “materia oscura”, dal nome del progetto: DarkSide. L’obiettivo è trovare i segnali che confermino l’esistenza di questo qualcosa, che non si sa bene cosa sia ma deve esserci perché altrimenti «non si spiegherebbe il movimento delle galassie, la cui rotazione osservata da Terra è diversa da quella che ci si aspetterebbe dalla loro forma vista al telescopio».

A parlare è Alessandro Cardini, 57 anni, dirigente di ricerca e direttore della sezione di Cagliari dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare: l’ente di ricerca che studia l’infinitamente piccolo, le fondamenta della materia. Nato a Lodi, laureatosi a Pisa nel 1989 in Fisica, studi alla Ucla University della California e, per tre anni, nell’Ateneo di Roma, dal 2000 è nel capoluogo sardo dove, sin dal 2018, è alla guida del gruppo di ricercatori sardi impegnati nello studio del sito candidato a ospitare (a Lula) l’Einstein Telescope, il futuro grande rivelatore di onde gravitazionali.

«I risultati preliminari sono più che incoraggianti, sarebbe una collocazione perfetta per questo strumento», dice. Il suo gruppo è formato da circa 110 donne e uomini, molti dei quali sardi: sono il personale di ricerca e di supporto amministrativo dell’Infn di Cagliari più i professori e i ricercatori associati che lavorano agli esperimenti. «Siamo una sezione piccola ma per un altro esperimento chiamato Lhcb» che studia le differenze tra materia e antimateria. «Il nostro gruppo ha 19 persone: è il più grande d’Italia. Ce la giochiamo bene come sardi». Dunque, nell’Isola un gruppo di fisici studia l’Universo più profondo, cerca di svelarne i misteri e rende reale materia da pellicola hollywoodiana, cercando anche di creare il materiale che serve da bersaglio per la ricerca di quella materia oscura che non si vede ma c’è. «Qualcosa di unico al mondo per contribuire alla ricerca».

Professore, cos’è questa materia oscura? Il nome fa pensare subito a Darth Vader e Luke Skywalker del film Guerre Stellari.

«Non lo sappiamo. L’ipotesi, legata alla rotazione anomala delle galassie, è che esista una massa aggiuntiva all’interno di questi immensi agglomerati di stelle, qualcosa che fa parte della loro massa ma non si vede. Del resto conosciamo solo il 4 per cento degli elementi dell’Universo. Ci manca il restante 96 per cento».

E l’antimateria?

«Gli scienziati immaginano che nel Big Bang, il momento di nascita dell’Universo, per il principio di conservazione si sia creata tanta materia quanta antimateria. Quell’antimateria dove è finita? Non la si vede. Quindi o non c’è, o non c’è più. Si disintegra in energia quando incontra la materia. In Natura esiste ma il nostro mondo non può sostenere la sua esistenza a lungo. In certi casi può essere prodotta, magari da una sorgente radioattiva. Al Cern di Ginevra si creano particelle di antimateria e si studiano le differenze di comportamento tra i due stati per capire perché l’Universo sia fatto di materia».

Se la materia oscura non si vede, come si può scoprirla?

«La tesi è che eluda i rivelatori ma non del tutto. Allora: il Sistema solare si muove in un vento di materia oscura e la Terra nel suo giro attorno alla propria stella per un tratto va contro questo vento. Così ci aspettiamo variazioni stagionali che, se trovate, potrebbero essere l’indicazione della presenza della materia oscura».

La Sardegna in tutto questo che ruolo ha?

«Importante. Al centro di ricerca del Gran Sasso è in costruzione un rivelatore, cioè una vasca di gas Argon reso liquido sulla quale la materia oscura potrebbe mostrare un proprio segnale visibile. Entro cinque anni potremmo cominciare, ma serve un ambiente protetto dai raggi cosmici e inoltre l’Argon per sua natura è leggermente radioattivo, quindi può falsare la ricerca. Serve un Argon a bassa radioattività che ricaviamo da una miniera negli Usa e portiamo in quella di Nuraxi Figus a Gonnesa, dove è in costruzione una colonna di distillazione alta 350 metri unica al mondo che separerà l’Argon radioattivo da quello non radioattivo. L’Isola dunque partecipa anche come responsabile di ciò che formerà la materia prima, il cuore del rilevatore».

Perché “anche”? Cos’altro accade da noi?

«Perché vogliamo avere l’Einstein Telescope a Lula per il fondamentale studio delle onde gravitazionali, cioè le perturbazioni generate da cataclismi cosmici come l’incontro di due buchi neri. Eventi che producono perturbazioni nella struttura dello spazio-tempo. Captare queste onde significa osservare cataclismi cosmici avvenuti magari miliardi di anni fa».

In cosa consiste l’importanza dell’Einstein Telescope?

«Molti di questi fenomeni non emettono luce visibile, dunque per captarli serviva un nuovo senso. Le onde gravitazionali sono state osservate per la prima volta nel 2015 negli Usa e poi a Pisa: da allora è cominciata una nuova astronomia. Si può vedere qualcosa col telescopio, con lo strategico radiotelescopio di San Basilio e anche adesso con le onde gravitazionali. Usando occhi e orecchie il fenomeno è meglio comprensibile. Le onde gravitazionali si propagano per enormi distanze senza essere assorbite, contrariamente a quanto accade alla luce, e arrivano a noi più nitide. Sono una macchina del tempo che può spingerci vicini al Big Bang, la nascita dell’Universo 13,8 miliardi di anni fa. Ecco, l’Einstein Telescope ha la possibilità di portarci così tanto indietro nel tempo: un triangolo sotto terra con tre tunnel di 10 chilometri l’uno. Lo si vuole fare in Sardegna, a Lula, perché è uno strumento molto sensibile alle vibrazioni e lì sotto l’attività umana è ridotta al minimo. Inoltre c’è pochissima attività sismica».

Voi che compito avete?

«Il nostro gruppo lavora al progetto da 5 anni. Stiamo contribuendo alla caratterizzazione del sito di Sos Enattos usando strumenti che facciano capire quali condizioni fisiche ci siano 200 metri sotto il suolo. I risultati preliminari sono più che incoraggianti. C’è un silenzio assordante, l'Einstein Telescope troverebbe la sua collocazione perfetta. Sarebbe un Cern in miniatura».

Di recente ha fatto notizia il riuscito esperimento di fusione nucleare. Si è parlato di scoperta rivoluzionaria e di energia pulita. Di cosa si tratta?

«La fusione è l’unione di due atomi in uno solo con il rilascio di energia aggiuntiva, che avanza. Un procedimento opposto alla fissione nucleare, quella utilizzata oggi nelle centrali atomiche, col quale l’atomo viene diviso: lo si spacca in due liberando energia utilizzabile. Nella fusione sono coinvolti il deuterio e il trizio, isotopi dell’idrogeno ma più pesanti, che messi assieme producono un atomo di elio liberando un neutrone: cioè l’energia aggiuntiva prodotta dalla reazione. Quel che accade nelle stelle. Ma farlo in laboratorio è molto complicato, perché avvicinare due atomi richiede forze enormi. L’esperimento di cui si è parlato è stato fatto negli Usa, dove 192 laser molto potenti sono stati indirizzati verso un oggetto grande più o meno come un grano di pepe portando la temperatura a 3 milioni di gradi. Alla fine è venuta fuori più energia di quella immessa».

Perché sarebbe una scoperta rivoluzionaria?

«L’idrogeno si può ricavare facilmente dall’acqua. Si tratterebbe di avere una centrale elettrica sempre accesa che produce energia gratis e infinita per tutti senza radioattività e anidride carbonica».

Non è pericoloso creare un sole artificiale? Non si rischia di essere polverizzati all’istante?

«No, perché il sistema per funzionare necessita di un ambiente idoneo complicato da ottenere. Se la pressione che comprime gli atomi sparisse, questa stella si spegnerebbe immediatamente. Se si perdesse il controllo, la stella si spegnerebbe naturalmente senza alcuna conseguenza. Non è come la centrale nucleare che, con la fusione del nocciolo, provocherebbe conseguenze diverse. Anche in Europa sono in corso esperimenti, ma anziché laser si utilizzano campi magnetici per ricostruire la stella in laboratorio».

Infine: hanno scoperto due pianeti simili alla Terra a 16 anni luce di distanza, forse abitabili. C’è vita intelligente nell’Universo?

«Superare la velocità della luce, 300mila chilometri al secondo, è difficile. Forse impossibile. Quindi anche avendo astronavi tanto rapide servirebbero 16 anni per arrivare su quei mondi. Oggi l’oggetto umano più distante dalla terra sono le due sonde Voyager, lanciate a fine anni Settanta e appena uscite dal Sistema solare. Viaggiano a circa 60mila chilometri orari. Per arrivare più lontani ci si dovrà inventare qualcosa di nuovo. Sulle forme di vita, in un Universo così grande sarebbe strano essere gli unici. Se anche fossimo l’unica civiltà della Via Lattea, ci sono altri miliardi di galassie nel Cosmo. Ma se anche esistessero, la probabilità di potersi mettere in contatto con loro è molto bassa. Certo sarebbe bello scoprire un mezzo di trasporto per viaggiare a velocità superiori alla luce».

Andrea Manunza

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Le curiosità dei piccoli

Aspettando la cometa dei Neanderthal: il primo febbraio visibile a occhio nudo

Le comete sono oggetti celesti che da sempre affascinano e stupiscono l’uomo. Appaiono nel cielo notturno all’improvviso, crescono in luminosità e mostrano una coda che cresce nel tempo. Come velocemente appaiono, altrettanto velocemente scompaiono diventando oggetti fugaci, misteriosi e apparentemente imprevedibili. Alla fine di questo mese potrebbe diventare visibile la cometa C/2022 E3 (ZTF), ribattezzata amichevolmente “La cometa dei Neanderthal”, perché l’ultima volta che passò vicino al Sole fu circa 50.000 anni fa.

Il 12 gennaio è passata vicino al Sole e il 1 febbraio transiterà vicino alla Terra, potendo diventare visibile a occhio nudo. Le comete sono quello che resta delle origini del Sistema Solare. Agglomerati di ghiaccio e di polvere, orbitano attorno al Sole e si trovano prevalentemente oltre Nettuno. Quando le comete si avvicinano al Sole, la luce della nostra stella le scalda e sciogliendosi perdono pezzi di ghiaccio nello spazio. Spinti dal vento solare, un vento che ha origine nel Sole, i pezzi di ghiaccio si perdono nello spazio, formando una coda che cresce con l’avvicinarsi al Sole.

La coda si trova sempre in direzione opposta al Sole. Quando la cometa si avvicina alla nostra stella, la coda la segue, mentre quando si allontana la coda la precede. Tra fine gennaio e i primi di febbraio la cometa dei Neanderthal passerà vicino alla Terra. Per cercarla a occhio nudo o con un piccolo binocolo bisognerà puntare la costellazione della Giraffa, tra il Grande ed il Piccolo Carro, sperando che sia abbastanza luminosa.

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Cos’è il Sistema Solare?

Il nostro pianeta fa parte di una grande famiglia chiamata Sistema Solare. La Terra con altri 7 pianeti gira attorno al Sole.Oltre ai pianeti nel Sistema Solare abbiamo i pianeti nani, gli asteroidi e le comete.

Perché i pianeti girano attorno al Sole?

Il Sole tiene vicino a sé i pianeti, come la Terra tiene noi sulla sua superficie. La “colla” che ci impedisce di volare nello spazio si chiama forza di gravità,che tiene i pianeti in movimento attorno al Sole.

I pianeti girano attorno al Sole su percorsi che chiamiamo orbite. Le orbite ricordano cerchi allungati che chiamiamo ellissi.

I pianeti sono visibili nel cielo?

Cinque pianeti sono visibili appaiono come stelle.Sono Mercurio,Venere, Marte, Giove e Saturno.

Plutone cosa è?

Plutone è un piccolo mondo che fa parte della famiglia dei pianeti nani. È più lontano di Nettuno ed è più piccolo della Luna.

I pianeti sono tutti come la Terra?

No, la Terra è un posto molto speciale, è rocciosa e si trova alla giusta distanza dal Sole per non essere troppo calda o troppo fredda, per questo è adatta alla vita. Nel Sistema Solare esistono altri tre pianeti rocciosi: Mercurio,Venere e Marte. Giove, Saturno,Urano e Nettuno sono invece pianeti gassosi.

Quanto è grande il Sistema Solare?

Se riducessimo le dimensioni del Sole a quelle di una moneta da 1€, la Terra si troverebbe a circa 3 passi di distanza, Giove a 15 passi, Saturno a 29 passi e Nettuno, il pianeta più lontano dal Sole, a circa 90 passi.

Quanto si muovono veloci i pianeti?

Il Pianeta che si muove più velocemente è Mercurio, compie un giro attorno al Sole in 88 giorni. Allontanandosi dal Sole i pianeti si muovono più lentamente, la Terra impiega un anno per fare un giro attorno al Sole, Saturno quasi 30 anni.

Qual è il più caldo e quello più freddo?

Venere è il pianeta più caldo, sulla sua superficie la temperatura è di 464°C, tale da fondere il piombo. I pianeti più freddi sono Urano e Nettuno,la temperatura è di circa -200°C e per quello sono considerati pianeti gassosi e ghiacciati.

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