Non è cambiato nulla, in tre mesi. La pandemia Covid, che ha imposto uno stop a mondo, costringendo le città, intese come attività sociali ed economiche a fermarsi, sembrava che almeno sul fronte dell'inquinamento avesse concesso una tregua. Non è stato così. Non lo è stato di certo sul fronte della plastica.

Piccolo (ma solo rispetto ad una situazione più generale) dato sardo. Quando gli operai incaricati di ripulire la spiaggia del Poetto (i cinque chilometri cagliaritani da Marina Piccola alla Bussola) invasa da un incredibile e abnorme tappeto di canne, hanno messo mano anche su una ben più preoccupante (e meno naturale) distesa di plastiche. Bottigliette, sacchetti, tappi, resti di lenze barattoli, anche parti di giochi di bimbi erano finiti sulla sabbia, seminascosti dalle canne. Ne hanno raccolti, in soli quarantacinque giorni di lavoro, oltre 500 chili, mezza tonnellata di rifiuti pericolosi abbandonati direttamente sull'arenile o trascinati, sulla battigia, dalle mareggiate.

Perché il mare ne è pieno. E di tanto in tanto, quando s'infuria, restituisce alla terra e agli uomini che ne sono i diretti responsabili, la spazzatura che in acqua avevano scaraventato. In mare ma anche nei fiumi, sulle sponde dei corsi idrici.

Sul fronte coronavirus c'è da aggiornare l'elenco dei materiali. E così, non solo davanti ai centri commerciali o nelle aiuole dei giardini, nelle strade e sui marciapiedi, la scellerata usanza di liberarsi di guanti e mascherine anti contagio si è estesa anche alle spiagge, pur interdette durante i mesi dell'emergenza.

«Ora dobbiamo fare attenzione ad una nuova minaccia: i dispositivi di protezione individuale che, dopo essere stati utilizzati diventano rifiuti, devono essere smaltiti correttamente per evitare che invadano le nostre strade, i nostri marciapiede e i nostri parchi», hanno spiegato al Wwf. «Quantitativi crescenti di mascherine e di guanti sono avvistatati in mare dove rischiano di diventare letali per tartarughe e pesci che li scambiano per prede di cui nutrirsi».

Secondo il Politecnico di Torino, nella sola Fase due si conta che sono serviti un miliardo di mascherine e mezzo miliardo di guanti al mese. Quantitativi elevati che impongono un'assunzione di responsabilità da parte di chi utilizzerà questi dispositivi di protezione: bisogna che ognuno di noi faccia uno sforzo per far sì che si proceda con uno smaltimento corretto e con il minor impatto possibile sulla natura.

Se anche solo l'1 per cento delle mascherine venisse smaltito non correttamente e magari disperso in natura, questo si tradurrebbe in ben 10 milioni di mascherine al mese disperse nell'ambiente. Considerando che il peso di ogni mascherina è di circa 4 grammi questo comporterebbe la dispersione di oltre 40mila chilogrammi di plastica in natura: uno scenario pericoloso che va disinnescato.

Così Donatella Bianchi, presidentessa del Wwf Italia: «Così come i cittadini si sono dimostrati responsabili nel seguire le indicazioni del governo per contenere il contagio restando a casa, ora è necessario che si dimostrino altrettanto responsabili nella gestione dei dispostivi di protezione individuale che vanno smaltiti correttamente e non dispersi in natura». Un vero e proprio appello. «È necessario - ha aggiunto Bianchi - evitare che questi dispositivi, una volta diventati rifiuti, abbiano un impatto devastante sui nostri ambienti naturali e soprattutto sui nostri mari. Proprio per difendere il Mediterraneo che ogni anno già deve fare i conti con 570 mila tonnellate di plastica che finiscono nelle sue acque (è come se 33.800 bottigliette di plastica venissero gettate in mare ogni minuto), chiediamo alle istituzioni di predisporre opportuni raccoglitori per mascherine e guanti nei pressi dei porti dove i lavoratori saranno costretti ad usare queste protezioni per operare in sicurezza. Ma sarebbe opportuno che raccoglitori dedicati ai dispositivi di protezione fossero istallati anche nei parchi, nelle ville e nei pressi dei supermercati: si tratterebbe di un vantaggio per la nostra salute e per quella dell'ambiente».

Poetto, giorni nostri. Tra le montagnole di sabbia del cordone retrodunale e la vegetazione bassa di tanto in tanto sono spuntati guanti usati. Rifiuti fortunatamente occasionali. Ben altro, si vede in mare. Non c'è neppure bisogno di indossare una maschera per scoprire l'indecenza. Sotto la superficie, in pochi centimetri d'acqua, tra i filamenti di posidonia galleggiano e dondolano resti di buste, a volte sacchetti interi, pezzi di cellofan trasparenti e quasi invisibili, bicchieri candidi, posate, tappi colorati. È la plastica diventata presenza inquietante e costante dei nostri mari, e non solo del Poetto. È lì, cibo insidioso per tartarughe marine (voraci di meduse, tanto da scambiare i sacchetti trasparenti in gustosi celenterati), pesci e crostacei.

Ogni anno finiscono negli oceani tra i 5 e i 13 milioni di tonnellate di plastica. Una parte importante di questo materiale si trasforma in minuscoli frammenti, chiamati microplastiche. Ebbene, si trovano in superficie come negli abissi, contaminanti pericolosissimi che entrano nella catena alimentare e finiscono dritti nei nostri piatti.

Docenti e ricercatori dell'Università di Cagliari (Dipartimento di Scienze della vita e dell'ambiente) Antonio Pusceddu, Alessandro Cau, Claudia Dessì, Davide Moccia, Maria Cristina Follesa, in collaborazione con i colleghi dell'Università Politecnica delle Marche, hanno documentato la presenza di microplastiche in due specie commerciali di crostacei di profondità: lo scampo e il gambero viola.

Entrambe le specie raccolte nei mari intorno alla Sardegna mostrano un'elevata contaminazione da microplastiche composte, in prevalenza, di polietilene, il principale costituente degli imballaggi. I risultati dello studio sono stati pubblicati alla fine dello scorso anno sulla prestigiosa rivista, Environmental Pollution. Un monito, l'ennesimo della ricerca scientifica, a perseguire le strategie di sviluppo sostenibile indicate dall'Onu e, nel caso specifico, tutelare la vita marina.
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