Dopo l'immersione nell'opera ancora misteriosa di Dostoevskij, con la consapevolezza che il bene lotti quotidianamente col male non nel mondo esterno, in un palcoscenico manicheo, bipolare, ma proprio all'interno del nostro animo, nel terreno consacrato della nostra personale esistenza, ho letto un'intervista a Pupi Avati che ha spalancato la porta ai pensieri. Il regista e scrittore parlava di un "altrove" al quale si accedeva, nei cinema, quando si scostava il pesante tendone intriso di fumo. Un altrove che si è perso, nella cinematografia e in genere nell'arte italiana.

Un "altrove" sconfitto dal male che è il presente attorno al quale siamo costretti a girare in tondo, incapaci di approfondire il passato e di concepire un futuro.

Il male ha vinto, in Italia e ancor di più in Sardegna, e abbiamo perso la possibilità di pagare un biglietto popolare ed entrare direttamente dal Corso di Nuoro al Pidocchietto (ogni paese aveva il suo Pidocchietto), il cinema che era la porta di un altro universo che ci inebriava e ci proiettava altrove, ricordate?

La mobilità sociale, dopo gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, le uniche decadi del Novecento in cui le diseguaglianze socio economiche erano vivaddio diminuite, si è nel tempo ridotta a uno stretto labirinto: le classi medie sono quasi scomparse, la possibilità di prendere l'ascensore e proiettarsi in una migliore dimensione sociale è diventata un gratta e vinci, la paura che i figli avranno una vita peggiore dei genitori è assurta a certezza diffusa, e i giovani scappano dall'angustia.

Oh, certo, ragionando in prospettiva familiare (e anche questo è un segno del male, giacché la capacità di ragionare in termini comunitari ci è stata espiantata in favore di una miopia individualistica), s'immagina che lavorando duramente, con serietà, i propri figli potranno avere un futuro migliore. Tuttavia questa speranza s'infrange contro la falesia del "Territorio Arretrato" (categoria UE in cui la Sardegna versa), cui ci hanno portato generazioni di politiche e politici via via culturalmente più poveri.

L'ascensore sociale non scala le pareti di roccia, la sinistra guarda da un'altra parte, il socialismo nobile si è dedicato a instillare solo sensi di colpa nelle fasce deboli della popolazione. Thomas Piketty ha dimostrato che stiamo ritornando alla situazione d'inizio Novecento, e - se non fossimo ubriacati da questo presente, e speranzosi, come tacchini, che ci consenta almeno un domani mattina, una sopravvivenza biologica immediata - ci accorgeremmo con angoscia che le diseguaglianze sociali stanno esplodendo, che la popolazione (indifferenziata, intercambiabile, una commodity) è funzionale solo al benessere delle élite e alla loro aspettativa di vita, e che la politica è ritornata potere per il potere, non amministrazione del bene pubblico che evapora.

Ho già provocato: c'è ancora qualcuno in Sardegna che crede che il diritto alla salute sia uguale per tutti? Il diritto alla giustizia, ai trasporti e alla mobilità, alla formazione, al talento e all'innovazione? Si millanta l'uomo nuovo, allevato a bio, sorridente di fronte alla colazione di cereali e alla giornata di sole che l'aspetta (come da martellante pubblicità), e milioni di pensionati mangiano carni bulgare e passate tossiche, e non possono neanche curarsi i denti.

Perché dunque non ci ribelliamo, non cambiamo? Un contributo di comprensione può venire dagli scrittori francesi che hanno raccontato la Cambogia e Pol Pot (l'unico italiano in visita, nel suo filosofeggiare, non si è mai accorto dei genocidi). Tre milioni di morti, ma l'acquiescenza del popolo era tale che decine di persone aspettavano in fila ordinata e paziente la propria esecuzione. Non c'era alternativa, speranza, era stato cancellato qualsiasi "altrove".

Noi siamo così: il male ha chiuso il nostro Pidocchietto, non abbiamo un tendone da scostare, neanche sappiamo dove stiamo andando, in ordine sparso.

Ciriaco Offeddu

Manager e scrittore
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