Oggi, prima di leggere questo articolo pensato per non finire mai su carta ma per essere pubblicato su www.unionesarda.it, avete probabilmente controllato la vostra casella di posta elettronica, letto alcuni messaggi e forse risposto ad altri, aperto il vostro sistema di messaggistica istantanea preferita magari chattando con un amico/a o un/a parente, dato un'occhiata a uno o più social network al quale (ai quali) siete iscritti. Forse avete cercato qualche informazione sul motore di ricerca più diffuso al mondo. È possibile che abbiate fatto o stiate per fare un acquisto online, o magari in un negozio pagando con il bancomat o la carta di credito. La lista potrebbe andare avanti. L'essenziale è notare la miriade di tracce elettroniche che avete lasciato. Sul web, ma non solo. L'internet delle cose è già fra noi. Se la vostra auto è nuova, per esempio, è dotata di un computer di bordo, geolocalizzazione e connessione alla rete: la sua memoria conserva traccia di ogni vostro spostamento. E con il 5G tutto ciò avverrà in modo ancora più massiccio: una moltitudine di sensori, sparsi nelle nostre città sempre più smart, rileveranno la nostra presenza, le nostre azioni, le nostre vite.

UN NUOVO MODELLO ECONOMICO Il tema riguarda tutti ed è di strettissima attualità. La disponibilità su Netflix del documentario di Jeff Orlowski "The social dilemma" e la traduzione in italiano del capitale studio di Shoshana Zuboff "Il capitalismo della sorveglianza" (la Zuboff è una delle tante personalità intervistate nel corso del documentario) hanno sottoposto anche il pubblico italiano alla necessità di confrontarsi con quello che è qualcosa di più di un nuovo modo di comunicare: è il nuovo sistema economico in cui tutti viviamo immersi.

Con Apple, Google e Facebook sono le società più ricche al mondo. Lo sono diventate applicando un modello di business radicalmente diverso da quelli storicamente conosciuti. Come fanno soldi? Cosa vendono? E a chi? "The social dilemma", lasciando la parola ad addetti ai lavori di prima rilevanza (per esempio uno degli inventori di Gmail, il responsabile della monetizzazione di Facebook, il creatore del tasto "mi piace" e altri) e "Il capitalismo della sorveglianza" partono da una frase che ormai sta facendo breccia anche nelle coscienze più distratte: "Se un prodotto è gratis, il prodotto sei tu". Zuboff, docente all'università di Stanford, si spinge più avanti: in realtà noi, utenti di Google e iscritti a Facebook o a WhatsApp, siamo i fornitori volontari di materia prima. Ovvero i dati: dati comportamentali.

QUELLO CHE SANNO DI NOI Ogni volta che interagiamo con il motore di ricerca, usiamo la casella di posta elettronica gratuita, postiamo qualcosa o commentiamo il post di un amico o clicchiamo "mi piace", stiamo fornendo informazioni preziose alle aziende che forniscono apparentemente gratis questi servizi che occupano gran parte delle nostre giornate. Sanno a che ora abbiamo compiuto una certa azione, dove eravamo, se davanti a un computer fisso o portatile, se digitavamo dallo smartphone o su un tablet, dove eravamo, con chi. Sanno che foto o video o canzone abbiamo guardato o ascoltato. Per quanto tempo ci siamo trattenuti. Sanno se siamo maschi o femmine o transgender, se i nostri orientamenti sessuali sono etero o omo, se siamo single o abbiamo un partner, se abbiamo figli, quanti e di che età, che musica e film e libri e scarpe ci piacciono. Soprattutto sanno, grazie a capacità di calcolo che solo trent'anni fa non sarebbero state nemmeno immaginabili, che tipo di prodotto potremmo essere interessati ad acquistare. Se abbiamo bisogno di un mutuo o di un prestito. Se stiamo pensando di vendere casa. Se siamo intenzionati a votare alle prossime elezioni, e quale partito. E in base alle nostre propensioni al consumo o al voto vendono la loro vera merce, la pubblicità personalizzata (o targhetizzata) ai loro veri clienti, quelli da cui ricevono denaro, gli inserzionisti. E hanno il nostro consenso: l'abbiamo dato cliccando distrattamente e frettolosamente su "Acconsento" o "Sono d'accordo" quando una fastidiosa schermata ci comunicava il cambio delle condizioni di utilizzo di un'app o l'aggiornamento di un programma che avevamo urgenza di utilizzare.

Così, spiega "Il capitalismo della sorveglianza", gli oligarchi della rete sono riusciti in pochi anni a diventare le aziende più ricche mai esistite nella storia. E così, passo dopo passo, non protetti da un'azione legislativa insufficiente e troppo più lenta rispetto alla velocità sconvolgente dell'innovazione tecnologica cui abbiamo assistito negli ultimi vent'anni, noi, gli utenti, abbiamo finito per lasciarci espropriare della nostra privacy.

CHE FARE? Come uscirne? L'informatico Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, uno degli insider intervistati nel documentario di Jeff Orlowski, è l'autore di un bestseller in cui spiega, in dieci punti, perché dovremmo cancellare tutti i nostri account: via da Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok, Youtube. Una posizione simile a quella di un personaggio del romanzo "Il cerchio", di Dave Eggers, che in un mondo iperconnesso resisteva, solitario e refrattario, unico a vivere una vita online, e prendeva a fucilate il drone con cui veniva spiato da un'azienda che aveva fatto della trasparenza un imperativo totalitario. Il documentario proposto da Netflix, in definitiva, ci suggerisce di essere più consapevoli e meno passivi nella nostra vita online. Shoshana Zuboff immagina un movimento collettivo in cui noi, gli utenti, rivendichiamo con forza la volontà di riappropriarci del controllo sulla mole di dati sulle nostre vite di cui veniamo, secondo la sua analisi, saccheggiati a ogni interazione con la rete. Che fare, quindi? Un grande dilemma. Social, ma anche dannatamente reale.

© Riproduzione riservata