Si dice spesso che utilizziamo solo il 10 per cento del nostro cervello, ma non è vero (anche se taluno, talvolta, fa venire il sospetto): però è vero che utilizziamo solo una percentuale minima di quella specie di memoria più o meno collettiva che sono i dati. Nel mondo digitale, enormi quantità di informazioni vengono immagazzinate e conservate a lungo, potenzialmente all’infinito, e non serviranno più a niente. Spesso sono state utilizzate solo una volta, in molti casi nemmeno una. Eppure continueranno a occupare un posto nei server di qualche cloud, le nuvole del web in cui depositiamo dati di ogni tipo. Sembrano cose immateriali, sequenze di bit, niente di cui preoccuparsi davvero. Ma trascuriamo il fatto che possono avere, sull’ambiente, un impatto non inferiore a molte attività umane che siamo abituati a considerare inquinanti.

Server dislocati in tutto il mondo

È il problema dei cosiddetti dark data, cioè dati oscuri, o nascosti. Informazioni digitali che vengono acquisite ma non sfruttate per alcuno scopo. Per capire il concetto non c’è bisogno di pensare all’attività di una multinazionale o dei servizi segreti: ciascuno di noi è un collettore di dark data. L’esempio classico sono le foto che ormai chiunque scatta e memorizza sul proprio cellulare, magari svariate inquadrature pressoché identiche tra loro, che non cancelliamo mai anche se la maggior parte di esse, se non tutte, non le riguarderemo neppure una volta. Ormai è normale scaricarle in uno di quei cloud, a volte l’operazione è addirittura automatica (può accadere anche per i file di testo e di vari altri tipi); in ogni caso presuppone il funzionamento di server ed elaboratori solitamente dislocati in punti diversi, che ovviamente possono funzionare solo se alimentati da costante elettricità.

La riflessione sulla cosiddetta “impronta ecologica” (carbon footprint, in inglese) dei dark data non è nuova. Ma in un momento in cui tutto il mondo cerca disperatamente di consumare meno energia, questo diventa un problema assai più impellente. L’impronta ecologica esprime la quantità di emissioni di gas serra necessarie per produrre un oggetto, o per compiere un’attività, o per la gestione di un’organizzazione, o altro ancora. Risulta intuitivo, per esempio, che l’impatto ambientale dell’industria siderurgica o dei viaggi in aereo sarà molto elevato. Ma secondo i calcoli più attendibili, i dark data possono avere un’impronta ecologica paragonabile a quel tipo di attività.

Crescita esponenziale

Di recente ne hanno riparlato, sul magazine online The Conversation, Tom Jackson e Ian R. Hodgkinson, docenti di materie informatiche all’università di Loughborough, nel Regno Unito. Nel 2020, scrivono i due ricercatori, la digitalizzazione è stata l’origine del 4 per cento di tutte le emissioni di gas serra nel pianeta. E la produzione di dati cresce in maniera esponenziale: ci si attende che nel 2022 il mondo intero ne produca 97 zettabyte (cioè quasi 100mila miliardi di giga). Ma già nel 2025 la quantità sarà quasi raddoppiata fino a 181 zettabyte.

I conti esposti da Jackson e Hodgkinson sono davvero impressionanti. L’insieme dei centri di raccolta dati in tutto il mondo sarebbe responsabile del 2,5 per cento di tutta l’anidride carbonica prodotta dall’attività umana; l’intera industria dell’aviazione si ferma al 2,1. I due studiosi calcolano che un’azienda con cento impiegati basata sull’utilizzo di molti dati (come un’assicurazione, o una banca) possa generare ogni giorno quasi tremila gigabyte di dark data. Conservarli per un anno intero avrebbe un’impronta ecologica simile a quella di sei voli intercontinentali tra Londra e New York. Attualmente, aggiungono, le imprese producono ogni giorno 1,3 miliardi di giga di dark data. Pari, come carbon footprint, a più di tre milioni di voli tra le due sponde dell’Atlantico.

Se il mondo deve trovare delle soluzioni per consumare meno energia, è il ragionamento dei due docenti inglesi, non basta decidere di abbassare la temperatura del riscaldamento di casa o cercare di spostarsi a piedi per non usare benzina o gasolio. Sarebbe altrettanto utile e urgente limitare la produzione di nuovi dati. E chiaramente sono le grandi organizzazioni, pubbliche e private, a poter determinare i maggiori risparmi. Ma, proprio come per lo spreco di acqua o di luce elettrica, anche il singolo individuo può fare qualcosa. Anche ciascuno di noi. Magari iniziando a non scattare cento volte la stessa foto, o lo stesso selfie. Tanto, per quanto insistiamo, non verremo mai granché bene.

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