Dalla Corte d’appello di Milano arriva una sentenza che ha provocato immediate polemiche: un sindacalista è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale nei confronti di un’hostess perché lei avrebbe reagito «soltanto dopo venti secondi». I giudici di secondo grado hanno rigettato l'appello proposto dalla Procura e dall'avvocata Maria Teresa Manente, responsabile dell'ufficio legale dell'associazione Differenza Donna a cui la giovane si era rivolta. La vicenda risale al 2018, quando l’hostess aveva contattato il sindacalista per una vertenza sul lavoro all’aeroporto di Malpensa. Una conoscenza che sarebbe sfociata nell’episodio finito sotto la lente dei giudici. «Faremo ricorso in Cassazione», ha spiegato la legale dopo la sentenza che ha confermato quella del Tribunale, «Questa decisione ci riporta indietro di trent’anni e rinnega la giurisprudenza di Cassazione che da oltre dieci anni afferma che un atto sessuale, compiuto in maniera repentina, subdola, improvvisa, senza che venga accertato il consenso della donna, è reato di violenza sessuale e come tale va giudicato».

Sentenze e contraddizioni

Si torna a parlare della necessità di una riforma legata all’articolo 609 bis del codice penale, dove si definisca che il reato di violenza sessuale è rappresentato da qualsiasi atto compiuto senza il consenso della donna. La sentenza di Milano sembra però solo l’ennesima pronuncia di una giustizia ancora incapace di affrontare la violenza di genere secondo una concezione realistica che non colpevolizzi le vittime. Risale a un anno fa il caso choc di Firenze in cui la vittima si è ritrovata a subire un’aggressione sessuale per uno sbaglio: tre giovani sono stati considerati «non punibili per errore sul fatto che costituisce reato». La violenza sessuale come errore di valutazione del consenso sarebbe stata alla base dell’azione di tre ragazzi di 19 anni che hanno avuto rapporti con una giovane di 18 anni. Il processo con rito abbreviato ha portato il gup di Firenze ad assolvere gli imputati: «Non essendo il delitto di violenza sessuale punito a titolo di colpa, non può esserci responsabilità penale». Una sentenza arrivata nonostante le testimonianze rese nel procedimento. La ragazza implorava: «Smettetela, smettetela». Uno di loro diceva: «Questo è uno stupro». Nelle motivazioni il giudice considerava quei ragazzi «condizionati da una concezione pornografica delle loro relazioni col mondo femminile, forse per deficit educativo e comunque frutto di una concezione assai distorta legata all’impianto culturale d’origine». Le errate percezioni sono state quindi decisive per l’assoluzione degli imputati «perché il fatto non sussiste».

«La donna che sembrava un maschio»

Quasi surreale la decisione della corte di appello di Ancona di assolvere, nel 2018, due giovani condannati in primo grado per violenza sessuale. La motivazione sarebbe legata al fatto che la vittima somigliasse a un maschio e quindi non poteva spingere gli imputati a un’aggressione sessuale. Il successivo intervento della Cassazione, che ha annullato la sentenza inviando gli atti a Perugia per rifare il processo, aveva quanto meno smussato le polemiche. Erano state numerose le prese di posizione di associazioni contro le parole choc dei giudici d’appello: «La ragazza non piaceva» all'imputato che aveva registrato il numero di telefono della vittima col nome di “vichingo” con allusione «a una personalità tutt’altro che femminile, anzi piuttosto maschile». La nuova sentenza d’appello di Perugia, nel 2020, ha spazzato via tutte queste interpretazioni, condannando i due giovani per violenza sessuale.

«La palpata breve»

Nel 2022 ha avuto grande rilevanza mediatica l’assoluzione di un collaboratore scolastico accusato di aver toccato il sedere di una studentessa di 17 anni. L’uomo sarebbe stato autore, scrivono i giudici, di una «palpata breve». Non avrebbe commesso reato perché l’azione è durata «solo una manciata di secondi». Secondo le ricostruzioni, la ragazza stava salendo le scale in un istituto di Roma quando si è sentita toccare. Un palpeggiamento «durato tra i cinque e i dieci secondi» ha raccontato la studentessa in tribunale, tempo che è stato giudicato troppo breve per configurare la violenza sessuale. Irrilevante ai fini della sentenza anche il fatto che l’uomo - di 66 anni - avesse infilato la mano nei pantaloni della minorenne. Secondo i giudici si sarebbe trattato soltanto «di una manovra maldestra» e quindi non configurabile penalmente. Numerose le polemiche e le proteste per la decisione dei giudici romani.

La porta del bagno

Un’altra sentenza che fa discutere arriva da Torino. Un ventenne è stato assolto nel 2022 dalla Corte di appello dopo la condanna per violenza sessuale in primo grado. Secondo quanto scritto dai giudici sarebbe stata la vittima a indurlo a osare, lasciando socchiusa la porta del bagno. Entrambi i protagonisti della vicenda avevano bevuto. Secondo le ricostruzioni alla ragazza sarebbero anche stati strappati i vestiti. Circostanza giudicata non decisiva e che ha provocato pesanti polemiche: «Aver bevuto un bicchiere di troppo e aver lasciato la porta del bagno aperta, magari per sbaglio, non poteva autorizzare nessuno a usare violenza», hanno sottolineato le rappresentanti dell’associazione Europa Verde. «I vestiti strappati alla donna sono un segno inequivocabile di violenza».

Una strada ancora lunga

Insomma un secco “no”, l’assenza di urla o di richieste d’aiuto, la mancanza di resistenza minima, la reazione in venti secondi, il fraintendimento da parte di un aggressore, l’atto di brevissima durata e persino la mascolinità della vittima diventano quasi colpe di chi subisce violenza. Almeno così emerge dai tanti casi riportati dalle cronache giudiziarie in cui le aggressioni sessuali non vengono riconosciute e punite. La speranza è che non si torni mai alla sentenza del 1999, quando la Cassazione (davanti a una vicenda del 1992 - in Basilicata - che vide protagonisti un istruttore di guida e una diciottenne) parlò di «dato di comune esperienza» che non si possono sfilare i jeans «senza la fattiva collaborazione di chi li indossa». Per fortuna proprio la suprema Corte nel 2008 superò questo passaggio choc sui jeans, spiegando che la «vittima a volte può togliersi i pantaloni anche stretti per evitare conseguenze peggiori, persino la morte». Ma troppe sentenze degli ultimi anni dimostrano che è ancora lunga la strada per il totale riconoscimento della libertà della donna e del suo diritto di manifestare e difendere la propria sfera personale e sessuale senza il rischio di incorrere in violenze o colpevolizzazioni.

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