Dicono che la crisi dello sport, dove c'è, è crisi di dirigenti, più che di soldi o di talenti. La classe dirigente è spesso anziana, con quella mentalità dilettantistica che spesso è ritenuta l'unica praticabile, in regime di pressoché totale volontariato. Simone Carrucciu, norbellese nato nel 1975 e presidente del Tennistavolo Norbello dal 1998, sembra testimoniare il contrario. È stato da poco confermato per il terzo mandato alla presidenza del Comitato Sardo della Fitet, dove era entrato come consigliere dal 2000 al 2004, e dove era stato per due mandati vicepresidente. Nel consiglio regionale Coni dal 2000 a 2004, poi nel 2004-2008 in quello provinciale del Coni di Oristano, dal 2012 è membro della giunta regionale del Cip e dal 2005 vicepresidente del Comitato sardo Cip (il Coni paralimpico, per semplificare). E, dal 2012, fa parte della commissione paralimpica nazionale della Fitet.

Carrucciu, lei è ancora giovane, è nel pieno del suo lavoro di agente di commercio, ha famiglia, eppure si dedica con professionalità al ruolo di dirigente sportivo. Quindi è possibile?

"Bisogna partire dal modo in cui ti approcci al mondo sportivo. Io non sono atleta, ho cominciato già a 18 come dirigente. Sono un libero professionista dall'età di 18 anni, ho più mentalità dirigenziale. Mi sono innamorato del mondo sportivo, il tennistavolo mi ha rapito. Ho partecipato attivamente ai primi campionati del Norbello, ma il mio primo allenatore cinese mi diceva: Dritto malissimo, presidente molto bene. Nel mondo sportivo non tutti non possono fare tutto. Un bravo giocatore non è detto che diventi un buon tecnico o dirigente. E serve un approccio professionale, al di là del compenso. Per noi è puro dilettantismo, ma come una storia d'amore dipende da te come viverla: come una relazione seria o un'avventura. Io non mi sento comparsa: se ci sono, voglio recitare un ruolo attivo. Quando capisci cosa vuoi fare, dedicandotici nel modo migliore, ottimizzando le esperienze che hai fuori dal mondo sportivo puoi riuscire. E se ti piace farlo come piace a me tutto è più semplice. I titoli non si acquistano, si meritano".

Nelle federazioni sembra quasi un plebiscito per i presidenti uscenti, tutti confermati. Perché? Ma soprattutto, è una cosa positiva?

"Non è una domanda semplice. Per chi ha lavorato bene, le riconferme sono state più naturali. In altri casi ci possono essere lacune negli statuti, nelle regole. Credo che il sistema di controllo debba essere effettuato da terzi. Non alludo a brogli ma sarebbe tutto più trasparente. Ci sono tanti aspetti, la verifica delle candidature, le tempistiche. Io essendo coinvolto anche come società, mi rendo cosa vuol dire essere dalla parte di chi fa la domanda e di chi la accoglie".

Aspetti. Parla di lacune regolamentari: ci faccia un esempio.

"Il settore arbitrale dovrebbe essere un organo esterno, come l'Aia nel calcio. Non si può esser controllori e controllati. Ma alla fine nelle elezioni è la regola democratica che prevale. Molti hanno paura di cambiare, ma non ci dovrebbe essere una strada nuova o vecchia ma una strada giusta. Se una dirigenza sta facendo bene non va cambiata, magari ringiovanita. E poi il ricambio si ha se il Comitato genera attività, crea un movimento, ravviva l'interesse e attira nuove figure. Posso fare l'esempio del movimento paralimpico del tennistavolo. Se l'idea di inserire l'attività nel calendario, regolamentarla eccetera non l'attuiamo noi dirigenti, come possiamo pensare che i nostri affiliati siano portati a ragionarne con noi?"

Nell'assemblea di lunedì 9 novembre tutti gli eletti hanno avuto praticamente l'unanimità. Cosa significa?

"Due chiavi di lettura. Qualche assenza, al di là dei problemi legati al Covid, esprimeva un evidente dissenso. Ma per chi vuole esprimerlo c'è una sede idonea per parlarne, più dei social, ed era proprio quella. L'assemblea è un punto fondamentale del mandato elettorale, per tutti. Segna l'inizio e la fine di qualcosa. La seconda è che per me questo è un segno di continuità. Siamo convinti che la strada intrapresa sia quella giusta, Abbiamo cambiato senza stravolgere".

Immaginiamo che non si accontenterà di ripetere o consolidare ciò che ha fatto in questi anni.

"No, assolutamente. Vogliamo colmare alcune lacune, qualcosa che abbiamo messo in cantiere ma non è stato finalizzato al meglio. Penso al progetto "Vivi il Ping Pong", con il quale pensavamo di interagire con la comunità promuovendo l'attività sportiva per tutti, in particolare il tennistavolo. Consisteva nell'installare in zone pubbliche tavoli da ping pong, in sicurezza (con defibrillatori) per un'attività collegata in rete tra i vari comuni. Magari con un campionato promozionale che avvicini all'attività agonistica, come approdo finale. Ci dobbiamo credere di più".

Quanto sta incidendo l'emergenza Covid-19 nei vostri programmi?

"I problemi sono tanti, il primo è quello delle strutture. Molte società di tennistavolo, come quelle di altre discipline, hanno il problema dell'accesso alle strutture scolastiche. Se ce le chiudono da un giorno all'altro, abbiamo difficoltà a trovare sedi sostitutive vicine. Abbiamo un calo nel numero di squadre iscritte ai campionati regionali, ma è fisiologico".

Che posizione occupa oggi la Sardegna nello scacchiere nazionale del tennistavolo?

"Nei campionati nazionali siamo una delle regioni con il numero più alto, come numero dei tesserati assoluti siamo al sesto posto. Il tennistavolo è radicato da molti anni e la Sardegna è un'entità riconosciutissima nel territorio nazionale. E abbiamo il nostro peso nelle strategie della Federazione".

Le squadre sarde sono forti, giocano nei massimi campionati nazionali. E i pongisti sardi?

"Abbiamo alcuni atleti di interesse nazionale, qualcuno gioca nelle nazionali, altri ruotano attorno al progetto Italia, soprattutto nel settore femminile. Il settore maschile ogni tanto ha qualche buco generazionale fisiologico, ma ci sono già ragazzi che hanno intrapreso il percorso verso un agonismo serio. Siamo cresciuti in termini numerici, ai tornei giovanili abbiamo un alto numero di partecipanti. Anche nel settore paralimpico".

L'attività paralimpica e quella scolastica in molti casi sono considerate propedeutiche a qualcosa di più importante, per non dire proprio secondarie. Nel tennistavolo?

"Non è così. Intanto il tennistavolo è presente da sei anni: vogliamo lavorare sulla cultura del tennistavolo e siamo stati la prima federazione a firmare il protocollo d'intesa con una scuola, l'Istituto Porcu-Satta di Quartu, in cui siamo materia curricolare. Molti studenti sono rimasti colpiti da questa materia. Oltre a questo, il progetto Tennistavolo Oltre ci ha portato in decine di istituti scolastici in tutta la Sardegna. Non coinvolgiamo solo l'alunno paralimpico ma promuoviamo un concetto di integrazione che ci rende veramente sport per tutti. In fondo da noi la differenza tra olimpico e paralimpico praticamente non esiste. Non c'è molta differenza tra giocare seduti o in piedi. Siamo attivi con un tecnico federale all'unità spinale di Cagliarti e al Santa Maria Bambina di Oristano".

Parliamo di Norbello. Anzi, del fenomeno Norbello.

"È una storia di matti. Solo dei pazzi potevano affrontare un'avventura così. Dal 1998 tante cose sono cambiate, qualche socio c'è ancora, qualcuno no, ma ciò che ci fa andare avanti dopo 22 anni è il fatto di essere ancora un gruppo di amici che gestisce la società. Mai avremmo pensato di arrivare a questi traguardi. Nel 2007 abbiamo deciso di cambiare rotta, cercando nuovi stimoli. Io ne avevo bisogno: ci siamo concentrati su quello. Volevamo raggiungere un livello importante, perché ci siamo resi conto che se è difficile fare attività in un territorio così povero, restare sotto traccia è ancora peggio. Per portare avanti certe idee hai bisogno di risorse e noi abbiamo investito tanto prima di arrivare alla A1. Con l'obiettivo di avere una stabilità, un equilibrio economico. Se non lo avessimo fatto saremmo morti".

Invece?

"Siamo cresciuti. Arrivare a gestire un impianto come quello di Norbello in cui il tennistavolo è l'attività principale è il risultato di ciò che abbiamo costruito nel primo decennio. Quando ti ritrovi a fare una finale scudetto, a fare le coppe Europee e arrivare ai quarti di finale, cadi in un vortice che è impegnativo ma è anche soddisfacente. E una delle cose in cui vogliamo essere i più attivi è valorizzare il nostro territorio grazie allo sport. Ci teniamo da sempre. Il Trofeo Città di Norbello da undici anni porta atleti internazionali a Norbello. E poi c'è la quinta Giornata Paralimpica nel Guilcer, un format ideato da noi per are cinque o sei discipline. Un altro messaggio di integrazione e cultura sportiva, forse mai vissute in questo modo. Cerchiamo di abbattere barriere mentali. Proprio qui sette anni fa è nata la prima squadra paralimpica sarda di tennistavolo. E non facciamo solo tennistavolo: nel nostro progetto SportABILIamo c'è anche handbike e calciobalilla paralimpico, nell'IntegrABILIamo coinvolgiamo i migranti del territorio. Infine, c'è il 10° Concorso fotografico Obiettivo Tennistavolo, unico nel suo genere al mondo".

Per chiudere: scelga un risultato raggiunto dal suo staff delle Fitet e uno da raggiungere nell'immediato futuro.

"Aver creato un'organizzazione stabile e ben definita, facendo rete con tutte le altre federazioni ed essere riconosciuti dal mondo sportivo isolano, così come dev'essere. Da soli non si cresce. Un obiettivo? Ne dico due: con l'aiuto delle nostre società avere presto un campioncino giovane e poi che nelle scuole e nei territori si parli di tennistavolo con tutto ciò che ne consegue. Sempre olimpico e paralimpico, senza distinzioni".
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